Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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giovedì 26 settembre 2002

(Le mie guerre, 3):
Obiettore di convenienza

1998
Cominciava a fare tardi, e qualche nodo approssimarsi al pettine. Giunto al terzo anno di lettere stimai che ne sarebbero bastati due per finire, e non chiesi più il rinvio del servizio militare. E siccome sin da bambino chiunque ci fosse stato mi consigliava per l'amor di dio di non fare la naja, che nei migliore dei casi era una perdita di tempo, andai a informarmi per il servizio civile.

Dalle nostre parti siamo ben organizzati per questo tipo di cose. Infatti all'ufficio apposito mi dissero di scrivere una bella lettera in cui spiegavo di non poter prendere le armi per imprescindibili motivi di coscienza. Siccome però non tutti hanno con la propria coscienza quella dimestichezza che ti consente di mettere giù i concetti in nero su bianco, mi passarono un fac-simile di lettera da ricopiare che, mi garantivano, passava sempre. Sdegnosamente, preferii fare di testa mia, e scrissi una bella cartella di argomenti pacifisti, conditi con qualche riferimento evangelico ("Metti via quella spada", dice Gesù a Pietro nel tal versetto, ecc.). Ehm, da qualche parte dovrei averla, quella lettera. Io non butto via nulla. (Ma mi hanno formattato il 486). Scommetto comunque che era molto convincente. Io so essere molto convincente, specie quando non dico la verità.
Ed era appunto questo il caso. I miei motivi non erano senza dubbio quelli che avevano spinto i primi eroici obiettori cattolici e anarchici a finire in galera. Non che io non rifiutassi la guerra in linea di principio. Non che io non aborrissi l'uso delle armi. Ma insomma, il più importante motivo era che sarei stato idiota ad andare in naja, avendo la possibilità di non andarci.
Eh sì, scusate. Perché avrei dovuto stare per dieci mesi sequestrato in una caserma a patire gli scherzi scemi di un nonno di Molfetta (o Monfalcone), quando avrei potuto nello stesso spazio di tempo restare a casa mia e impegnarmi nel sociale? E "restare a casa mia" non significava necessariamente mammoneria (anzi, cercai di farmi dare un alloggio), ma anche la possibilità di continuare i miei percorsi: chi mi poteva assicurare nel 1996 che mi sarei laureato per il 1998? Nei fatti, la cartolina mi arrivò una settimana prima di consegnare la tesi.

Insomma, senza scomodare la Coscienza, il servizio civile conveniva. Da quando era stato ridotto a dieci mesi era sparito anche l'ultimo piccolo svantaggio nei confronti della naja. Da quel momento in poi, secondo il mio cinico punto di vista, bisognava essere molto idealisti o un po' idioti per scegliere di andare a militare, e questo era un altro buon motivo per non andarci. Infatti, non amo molto gli idealisti. Con gli idioti va già un po' meglio, ma insomma, molto meglio i volontari.

Vorrei poter dire che il mio servizio civile come obiettore di convenienza fu un'ottima esperienza, ma… anche lì, purtroppo, ho accumulato qualche ma. Anzi, mi sono reso conto che è proprio dal 1998 che ho smesso di fare volontariato. Prima avevo sempre fatto qualcosa di sociale e non retribuito per il puro gusto di farlo. Smisi proprio una volta diventato obiettore. Da quel momento "il sociale" diventava il mio mestiere: otto ore al giorno, da lunedì a venerdì (e sabato mattina). Divenne anche molto meno divertente. Anche perché in pratica non era retribuito: gli obiettori prenderebbero, credo, qualcosa come 1500 lire al giorno. Prenderebbero, perché (almeno fin quando dipendevano dalla Difesa), i soldi stazionavano per molto tempo nelle casse di qualche graduato su al distretto, che evidentemente faceva la cresta sugli interessi. Insomma i soldi dei miei ultimi mesi (comunque una miseria) arrivarono nelle casse della mia associazione con un anno e mezzo di ritardo. Nel frattempo avevo perso qualunque residuo di rispetto per l'esercito italiano, ma avevo anche capito una cosa che finora mi era sfuggita: il vero finanziatore del Servizio Civile non era lo Stato, ma le famiglie. Senza l'assistenza famigliare nessuno potrebbe permettersi di campare con un euro scarso al giorno. Le caserme non erano piene solo di idealisti e di idioti, ma anche di gente normale che non poteva permettersi una siffatta "obiezione di coscienza". La coscienza, insomma, era un lusso borghese. E io qualcosa di simile a un figlio di papà.

Ma, paradossalmente, ero anche manodopera sottopagata. Il fatto di non costare nulla alla mia associazione mi esponeva ai lavori più inutili (del tipo: schedare biblioteche chiuse al pubblico dal 1970; presenziare a conferenze per conto dell'associazione; sbobinare astruse relazioni; ecc.). Quel tipo di incombenze, insomma, che se non le facessi tu non le farebbe nessuno e il mondo resterebbe tale e quale. Lamentarsi sarebbe stato scandaloso, visto che in fin dei conti "ero anche un volontario", e i volontari certe cose le fanno volentieri (le fanno però due o tre ore la settimana). E poi, insomma, sempre meglio di andare a militare, no?

In capo a pochi mesi il servizio civile mi si presentava sotto una luce nuova: un'enorme risorsa di lavoro sottopagato per quelle centinaia di enti ed associazioni di volontariato che proprio in quegli anni cominciavano a fare la voce grossa e chiedevano a gran voce più rispetto, secondo il principio della sussidiarietà: dove lo Stato non arriva ci pensiamo noi. Ma era proprio lo Stato, mediante il ricatto della leva militare, a motivare tanti ragazzi a scegliere di lavorare gratis per un anno della propria vita presso questi enti e associazioni. Lo Stato, non la Coscienza.

Qualche mese fa ho assistito (un po' distratto, in verità), a un dibattito sulla presunta crisi del volontariato, partito da Vita. Sono state sviscerate dieci, cento, mille ragioni per questa crisi: il volontariato perde i suoi ideali, il volontariato si sporca con la politica, ecc.. Non so se qualcuno abbia tirato in ballo la fine della leva militare: ma è un fatto che gli obiettori di coscienza siano oggi in drastica diminuzione in Italia. Forse la crisi (che non è poi così grave) è tutta qui: le associazioni di volontariato che in realtà funzionavano grazie agli obiettori, oggi devono imparare a reggersi solo sui piedi dei volontari: ed è molto meno facile di quanto non sembrasse tre, quattro anni fa.

Nel frattempo, mentre sbobinavo, presenziavo a conferenze, incollavo etichette, spazzavo per terra, battevo scontrini, satinavo capannine di legno (sotto il sole di luglio), schedavo riviste, intonacavo, archiviavo, ecc.… avevo anche tutto il tempo di pensare. La mia lettera di Obiezione era piaciuta, e l'ufficio apposito mi aveva chiesto di dargli una mano. Mi avevano spiegato che occorreva cambiare i contenuti dell'opuscolo, e l'intera impostazione: tra poco, infatti, la leva non sarebbe stata obbligatoria, e il servizio civile sarebbe diventato davvero volontario. Bisognava capire come motivare i ragazzi, e magari anche le ragazze.
Io annuivo, ma ero un po' perplesso. Come potevo pensare di motivare una persona a interrompere i suoi studi o lasciare il suo impiego per lavorare gratis dieci mesi in un'associazione? Una scelta del genere può farla un idealista, o un idiota: quel tipo di persone che credevo scegliessero solo le caserme. E poi: ma siamo sicuri che l'abolizione della leva obbligatoria sia una buona cosa? L'espressione "esercito professionista" è sempre suonata molto sinistra alle mie orecchie. Il fatto è che io, in teoria, sarei per un esercito civile e democratico: ma nella pratica, mi ero ben guardato dal farne parte, con la scusa della coscienza: che ci andassero gli altri sotto le armi, quelli che la coscienza non potevano permettersela.
Mi ero incartato in una bella contraddizione. Una via d'uscita era l'utopia: avrei potuto decidere che ero contro qualsiasi tipo di guerra, qualsiasi tipo di esercito, qualsiasi tipo di violenza. Ma non ce l'ho fatta. Non sono così ipocrita. Non così tanto.

(continua, inesorabile).

martedì 24 settembre 2002

Banana Economy
Tutte queste voci sull'economia che va male, quanti mal di stomaco inutili provochiamo... (Silvio Berlusconi, oggi)

Ho sognato che ero una piccola cimice nel cimiciaio, e intercettavo, intercettavo.

Intercettazione n.1. Milano, Piazza Affari, venerdì 20 settembre, ore 9:57 AM

A: "E allora, come va?"
B: "Come vuoi che vada, merda stabile".
A: "C'è di peggio, no?"
B: "Sì, sì, ma qui non se ne salta fuori".
A: "Bisogna stringere i denti, dai".
B: "Macché denti, le palle bisogna stringere…"
A: "Dai…"
B: "… a quel ciula del presidente, e tutta la compagnia".
A: "Non dire così, su, non stai bene".
B: "Sì, dici bene, ma non ti bagni mai, tu?"
A: "Insomma… alti e bassi".
B: "Sì, sì, valà che ti conosco, te sai qualcosa".
A: "Dai, per favore"
B: "Te ne sai sempre una più degli altri, no?"
A: "Cazzate".
B: "E poi mi devi un favore".
A: "Da quando?"
B: "Dalla dritta che ti ho dato l'anno scorso, sai, le telecom".
A: "Sì, capirai la dritta…".
B: "E va bè, vorrà dire che ti dovrò un favore io. Dammi una mano, su".
A: "Tra un po', magari… adesso non posso".
B: "Io sto nella merda adesso, Michele".
A: (sospira): "Va bene, ma tientela per te, ochei? Hai delle Eni in portafoglio tu?"
B: "Grazie al cielo, sì".
A: "Vendi".
B: "?"
A: "Non fare quella faccia da pirla, molla tutto, vendi".
B: "Ma per quale cazzo di motivo…"
A: "Non c'è un motivo. Voci. In alto".
B: "Alto quanto?
A: "Alto tanto".
B: "Il Creativo?"
A: "Più in alto. Altissimo".
B: "Dai, adesso…"
A: "Dammi retta. Vendi tutto. Stamattina".

(ANSA) - ROMA, 20 SET - Il Governo intende ridurre l'indebitamento pubblico realizzando entro l'anno operazioni su Enel ed Eni. Annuncia Berlusconi. Il premier ha detto che sta studiando un meccanismo, a cui sta lavorando e 'con il quale si divertira''.Berlusconi ha anche detto che bisogna riprendere la vendita di partecipazioni, sospeso a causa dell'andamento negativo delle borse.
2002-09-20 - 15:52:00


Intercettazione n.2. Milano, Piazza Affari, venerdì 20 settembre, ore 15:42

B: "Michele!"
A: "Ehi! E allora?"
B: "Michele, questa è grossa. La tua fama d'intenditore…"
A: "Sssst. Piano. Non ne hai più, di Eni?"
B: "No, grazie a Dio".
A: "Guarda, Dio c'entra proprio poco. Adesso ricomprale".
B: "Eh?"
A: "Poi mi paghi una cena dove dico io. Dai. Ricomprale".
B: "Ma Berlusconi ha detto…"
A: "Ne dice tante. Ricompra tutto per le cinque e mezza".
B: "Ma…"
A: "Allora, ti fidi o no? Guarda che mi ricompro io anche le tue, ve'? E poi te la offro io, la cena".
B: "Ma che cazzo di gioco è…"
A: "Che cazzo vuoi che sia, è la borsa. E adesso compra, pirla".

(ANSA) - ROMA, 20 SET - Nessuna operazione specifica sulle privatizzazioni, precisa P. Chigi in riferimento alle dichiarazioni di Berlusconi in merito a operazioni su Eni ed Enel. Le dichiarazioni del presidente del Consiglio - afferma P. Chigi - erano e sono riferite all'intenzione del governo di far ripartire con determinazione il processo delle privatizzazioni senza pero' alludere in alcun modo ad alcuna operazione specifica'.
2002-09-20 - 17:48:00


Non lo dico io, è chiaro come Il Sole 24 Ore (l'edizione di venerdì scorso): abbiamo un Presidente che si diverte a fare andare su e giù i titoli in borsa (ravviso come un conflitto d'interessi), e poi ci chiede di star su col morale. Ne vedrete delle belle, dice. E io gli credo.
Voi no?

venerdì 20 settembre 2002

Le mie guerre (2)
Riassunto della puntata precedente: nel tentativo di spiegare la propria posizione nei confronti dell’annunciata guerra in Iraq, l’autore inizia a raccontare la storia della sua vita, partendo dal ’91. Interessante, no?

Più tardi, negli anni Novanta

La Guerra del Golfo – se ve la ricordate – ebbe un decorso molto particolare. Iniziò con sei mesi di ritardo (per sei mesi i giornali non parlarono d’altro), fu relativamente breve e… non finì mai. Qualcuno riesce a ricordarsi la fine? Io no. Ero distratto. Probabilmente ero deluso da un’informazione che aveva promesso di farmi vedere tutto e non mi aveva mostrato nulla, tranne le conferenze stampa di Schwarzkopf o gli occhi pesti di Cocciolone. Da lì in poi è tutto buio. Prima del ’91 la guerra era un evento eccezionale, la gente vuotava i supermercati per fare le scorte. Dal ’91 in poi la guerra è diventata ordinaria amministrazione. Nel giro di pochi anni persino un Paese tradizionalmente inetto alle armi come il nostro ha mandato contingenti in tutti gli angoli del mondo. Qualcuno (che non sia un esperto di geopolitica) mi sa dire attualmente quanti soldati italiani sono impegnati in missioni all’estero, e in quali Paesi? Bosnia, probabilmente, Kossovo, certo, Macedonia forse, Afganistan (ma è poca cosa), Albania, Somalia? Una volta ho anche sentito dire Mozambico, possibile? Questa gente fa notizia soltanto quando muore o quando tortura qualcuno. Perché ne parliamo così poco? Da bambino ricordo che tutti i giorni arrivavano notizia su quant’erano coraggiosi, buoni e simpatici i nostri ragazzi della missione di pace in Libano. La figura del soldato “in missione di pace” sembra aver perso molto appeal. Probabilmente lo spartiacque fu la guerra in Jugoslavia, cominciata direi nel ’92.

La guerra jugoslava per me è una specie di buco nero. Ricordo che per due o tre anni non sono riuscito a identificare le parti in causa, serbi, croati e bosniaci: caso molto strano, perché non è che avessi smesso di leggere i giornali: evidentemente gli stessi giornalisti avevano grosse difficoltà a costruire un quadro d’insieme. Non che mancassero le informazioni, ma l’insieme era confuso, cacofonico: inoltre era impossibile capire chi fosse la parte lesa e chi l’aggressore. Per capirne qualcosa ho dovuto aspettare i racconti di persone che conoscevo e che erano state di persona a Spalato o Mostar. Non soldati, né giornalisti: volontari.

Il brusio di voci, anche spaventose (alcune, poi, sono state ridimensionate: ma era tardi), alimentava un vago senso di colpa. L’Occidente si sentiva responsabile. Di cosa? Non si è mai capito bene. Ma in fondo l’Occidente si sente responsabile di qualsiasi cosa capiti nel mondo. È quell’egocentrismo culturale che porta alcuni teorici della cospirazione a pensare che B i n L a d e n abbia preso ordini dalla CIA: agli altri abitanti del mondo è negata persino la capacità di essere perfidi quanto lo siamo noi. Ora, in un certo senso questo è vero. Se serbi, croati e bosniaci si sono massacrati è stato anche grazie alle nostre armi: e poi l’Europa col senno del poi fu troppo lesta a festeggiare l’indipendenza delle regioni jugoslave, sulla base di un principio di autodeterminazione vetero-ottocentesco. C'erano sicuramente interessi economici in ballo. Però io credo che la responsabilità sia anche di chi le armi le impugna.

Questo mi metteva in difficoltà, visto che io ritengo sia giusto manifestare e protestare soltanto nei casi e nella misura in cui si può veramente cambiare qualcosa. Ricordo che all’inizio del buco nero i miei genitori mi chiesero con una certa cattiveria perché non andavo in piazza a manifestare, stavolta. Ma in che modo una mia manifestazione di protesta avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra in cui l’Italia non era direttamente coinvolta? Se avevo diversi motivi di rancore contro Craxi e Andreotti, li assolvevo tuttavia da qualsiasi tipo di responsabilità nei confronti dei Balcani.

A scuotermi dal torpore non è stato il boato dei mortai sulla spiaggia dell’adriatico, ma il volontariato, appunto, che in quegli anni ha avuto il suo momento di gloria. La guerra jugoslava, così vicina e così contorta, offriva pochi spunti agli idealisti del pacifismo, ma era il terreno ideale per un pacifismo diverso, concreto, ideologicamente povero, ma eroico. Senza troppo preoccuparsi di chi fosse nella ragione e chi nel torto, la gente partiva e andava a dare una mano nei campi profughi o nelle città assediate. Il volontariato italiano in Jugoslavia, che ha avuto i suoi morti (anche questi pochissimo ricordati) è un frutto maturo di un certo pragmatismo di origine cattolica, per cui la fede deve dimostrarsi nelle opere. Essere pacifisti, a metà degli anni Novanta, non significava più essere “contro la guerra”, ma organizzare raccolte di beni di prima necessità per i profughi bosniaci. Fu una rivoluzione che vide come protagonista anche la mia generazione, e che come tale andrebbe sbattuta sul naso di tutti i sociologi del “vuoto dei valori”. Fu un momento davvero importante, e io sono molto fiero di averne fatto parte, anche se in misura ridottissima.

Mi sono accorto che ne sto parlando al passato remoto. Questo è molto triste. Sono passati così pochi anni! Ma sono successe molte cose nel frattempo
(Continua, continua, ahimè).

martedì 17 settembre 2002

Non è solo il rullo di tamburi nell'aria che mi snerva, è anche il fremito delle migliaia di pacifisti che si preparano alla campagna autunno-inverno.
Io temo di essermi rassegnato ormai da un pezzo all'ineluttabilità non solo della guerra, ma anche delle manifestazioni pacifiste; del resto trovo che il pacifismo sia una fede, e come tutte le fedi meriti il mio rispetto. Tuttavia, prima di ritrovarmi a sfilare dietro allo striscione "no senza se e senza ma", vorrei fare presente che qualche "se" e qualche "ma" io ce li ho. E non da ieri:


Piccola biografia di piccolo pacifista

1991
Sin da quando mi ricordo penso di essere stato un pacifista, ma per tutti gli 80 questo non significava molto di più di sfoggiare qualche gadget con la colomba o la bandiera iridata ai concerti degli U2. Direi che la mia verginità di pacifista l'ho persa – l'abbiamo tutti persa – in occasione della Guerra del Golfo.
A quei tempi il dilemma non era molto diverso da oggi – siamo noi a essere cambiati. Sostenere Bush padre, che per questioni puramente petrolifere si proclamava gendarme del mondo, o difendere Saddam Hussein, feroce dittatore, palese violatore di diritti umani? Nel '91 era più che lecito chiamarsi fuori, tanto più che la guerra in quegli anni non andava così di moda. Anzi, era considerata un sistema arcaico e rozzo di risolvere le controversie internazionali, e la nostra stessa Costituzione la ripudiava.

Si dava per scontato che esistessero sistemi migliori. Ricordo per esempio un esperto di geopolitica che venne a parlare al nostro liceo (il nome no, ma era esponente di un nuovissimo partito, Rifondazione). Per lui (e per noi) Saddam era un problema, ma la guerra era un rimedio peggiore del male. Ricordo che alla domanda – legittima – "e allora come si fa a toglierlo di mezzo?" rispose che c'erano altri sistemi pacifici, convalidati dall'ONU: l'embargo, per esempio.

Qualche mese dopo la guerra ci fu, e noi manifestammo, senza se e senza ma. Dopo la guerra ci fu l'embargo, che dura da 11 anni. Chissà se quell'esperto di geopolitica nel frattempo ha cambiato opinione. Io non lo biasimo per quello che ci disse nel '91: nessuno poteva sapere che l'embargo avrebbe fatto più vittime della guerra. Nessuno poteva sapere che l'embargo è una guerra peggiore di quella combattuta, perché colpisce soltanto i civili, e isolando i paesi assediati ne rafforza le classi dirigenti, vale a dire i tiranni (in Iraq come a Cuba).
Oggi però lo sappiamo.

Oggi, se diciamo "no" a una guerra con l'Iraq, sappiamo che l'embargo non è un'alternativa -– anzi, è una guerra più sottile e più ingiusta. Se proprio si deve uccidere qualcuno, perché continuare a uccidere i bambini? Perché non far fuori qualche effettivo dell'esercito iracheno, e deporre il dittatore? Perlomeno l'embargo cesserebbe.
Questa, mi si dirà, è una falsa alternativa. Il pacifista tutto d'un pezzo vuole tutto: la pace e la fine dell'embargo. Magari vuole anche che S. Hussein si ritiri a vita privata senza colpo ferire.
Posso capire. Il pacifista tutto d'un pezzo non scende a compromessi. Non so se lo faccia per incapacità o per tattica (chiedere tutto per ottenere almeno qualcosa). Forse il pacifista tutto d'un pezzo è più saggio di me, e ha capito da un pezzo che è inutile comportarsi come se le guerre e le paci le decidessimo noi. Alla fine la guerra si farà, ma lui potrà dire che c'era e che ha detto no, senza se e senza ma. Non è più una questione di politica, ma una questione d'identità. (Non a caso la categoria tipica del pacifista è la "coscienza").

Nel '91, comunque, occupammo la scuola e ci dividemmo in due fazioni: quelli che rifiutavano la guerra tout court, e quelli che rifiutavano quella guerra lì, e l'intervento italiano in particolare. Grosso modo lo scontro era tra identità e politica. Io, ovviamente, ero già molto politico: per me la protesta aveva un obiettivo concreto, che era il governo italiano, mentre i pacifisti 'tout court' erano povere anime belle, massa critica da corteo. Solo ora mi viene il dubbio che fossero più smaliziati di me. E vorrà ben dire qualcosa se io nel frattempo ho cambiato mille idee, e loro no. Tutti d'un pezzo.
(Non è mica finita qui)

Un link sull'Iraq

venerdì 13 settembre 2002

Il periodo sintattico più lungo del 2001 è di Umberto Galimberti, saggista. Da "Repubblica", 8 settembre 2002, pag. 30: I nuovi vizi: il vuoto. Così si brucia la gioventù

Sicché alla fine tutto esplode, la compressione della razionalità mai diluita nell'emozione, la difesa delle buone maniere che ormai, persino a propria insaputa, fanno tutt'uno con l'insincerità, la noia, che come un macigno comprime la vita emotiva, impedendole di entrare in sintonia col mondo, formano quella miscela che sotterra l'Io di questi giovani a cui è stato insegnato tutto, ma non come "mettere in contatto" il cuore con la mente, e la mente con il comportamento , e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore.

La lingua italiana ha i suoi pregi e i suoi difetti – tra questi la straordinaria flessibilità della sintassi, che ci consente di scrivere lunghe frasi aggrovigliate intorno a un concetto senza mai affrontarlo seriamente. Nel 1980 Edoardo Bennato cantava:

Oggi i giovani son tutti uguali
Perché mancano gli ideali


Nel 2002 Galimberti non è che abbia da dire molto di più, ma per dirlo riesce a servirsi di 93 parole, 702 caratteri (spazi esclusi). 22 sostantivi, 10 verbi, 11 virgole.
Si potrebbe obiettare che una sintassi complicata può servire a descrivere concetti complicati. Io ho i miei dubbi. Gli anglosassoni, che al nostro confronto praticamente non hanno sintassi, hanno pure avuto filosofi e scienziati in grado di spiegarsi. Ciò che gli manca, forse, è quel tipo di saggista alla Galimberti, quel genere letterario che consiste nel dibattersi in concetti risaputi per sei colonne del più prestigioso quotidiano nazionale, senza fornire al volonteroso lettore nessun tipo d'informazione. Avesse qualche dato di partenza, Galimberti, su cui ragionare… un indizio, uno straccio di dato ISTAT, anche solo un'osservazione di strada, "ieri ero in metropolitana e ho visto un giovane vuoto, e ho pensato…". No, niente.

D'accordo, non è filosofia, non è giornalismo, ma è almeno letteratura? Un esercizio di stile, un elzeviro come ai vecchi tempi? In fondo la gioventù bruciata è un po' come le foglie secche d'autunno, uno standard senza tempo, soggetto di infinite variazioni sul tema.
Sì, potrebbe essere letteratura – a patto che fosse ben scritta. Galimberti pensa, come certi carabinieri e studenti non proprio brillanti, che la qualità di una frase consista nella sua lunghezza e complessità. Però, a parte certi errori belli e buoni (la virgola dopo "esplode"), il periodo che ho citato è di una goffaggine imbarazzante.

Per esempio: ammesso e non concesso che un periodo di 93 parole possa essere "ben scritto", esso non può iniziare con tutto esplode. Le esplosioni si mettono alla fine, Umberto! E poi: che ci sta a fare l'aggettivo possessivo proprio in una frase il cui soggetto è le buone maniere? Dobbiamo dedurne che le buone maniere agiscono a propria insaputa? E la miscela che sotterra l'Io… In quale poesia della serie B del campionato surrealista si è mai vista una "miscela che sotterra"? Madame, che razza di figura retorica è mai questa? Una brutta figura, sospetto. Come del resto il macigno, che invece di schiacciare la vita emotiva, (troppo scontato?), la comprime, in una sofferta orogenesi esistenziale.
Stupisce che dopo metafore così audaci Galimberti mostri qualche esitazione a scriverne una assai più banale, e la metta tra virgolette ("mettere in contatto" il cuore con la mente), sperando forse che le virgolette non facciano passare la banalità. Speranza delusa.
Il riverbero emotivo, invece, non è male, anche se i riverberi non "si incidono". Al massimo si generano, ma se ammettiamo che il cuore faccia da cassa di risonanza, allora non possiamo più lamentarci del vuoto nei cuori giovanili: niente vuoto, niente riverbero, no?
Desta perplessità, inoltre, il circuito chiuso evocato da Galimberti, che Jung avrebbe potuto rintracciare pari pari in un trattato alchemico: dunque, il cuore entra in "contatto con la mente", la "mente" a sua volta (forse perché spintonata dal cuore) entra in contatto col "comportamento", il "comportamento" col "riverbero emotivo" e il riverbero, buon ultimo, viene inciso sempre nel solito "cuore". A questo punto, temo, il ciclo riparte, ma il riverbero non può che aumentare in modo esponenziale: siamo sicuri che sia una buona idea? È come mettere un microfono davanti al suo altoparlante: feedback, c'è da tapparsi le orecchie.

In controluce, è chiaro che Galimberti si lagna dei giovani, cui rimprovera "la freddezza razionale", "l'ottimismo egocentrico" e l'"inerzia conformistica". Verso la quarta colonna diventa impossibile per il lettore non provare simpatia per questi ragazzi "virtuosi dell'irresponsabilità, senza alcun riguardo per la propria storia personale, senza rispettare impegni e senza temere le eventuali conseguenze bla bla bla…". Verso la quinta la voglia di recarsi a un afterhours e assumere ecstasy si fa insostenibile. Insomma, i giovani avranno tanti vizi, freddi, egocentrici, sì, sì, d'accordo, ma è raro che ti attacchino una pezza come certi editorialisti.
Non è chiaro cosa gli abbiano fatto i giovani, al povero Galimberti, ma sospetto che egli semplicemente non riesca a farsi ascoltare in famiglia: e non c'è da stupirsi, se parla anche solo la metà di quello che scrive. Ma è colpa del vuoto dei giovani o non, piuttosto, del ridondante vuoto teorico e interiore che Galimberti adopera come cassa di risonanza per le sue lamentazioni? Chi lo sa, forse G. trova i giovani "vuoti" perché ha notato che parlano poco. Ma di cosa dovrebbero parlare, se le parole le usa tutte lui (male)? Appartengono a una generazione che ha imparato a economizzare la comunicazione, perché il telefonino costa e gli SMS possono contenere solo tot caratteri. Galimberti, invece, è probabilmente vittima di un prof che dava un voto in più per ogni facciata di foglio protocollo. E poi dicono la cultura dei classici. Molto meglio la telefonia cellulare, per imparare a scriver bene (e poco).

Ma mi accorgo che sto scrivendo anch'io troppo, e chiudo qui. Con un ultimo appunto: se i giovani sono così vuoti, è anche perché le rare volte che si riempiono, arriva la polizia e li disperde col gas e i manganelli. Naturale che ci si sgonfi un po'. Pazienza, ci vuole pazienza.

mercoledì 11 settembre 2002

Niente sarà come prima, dicevano
(E a qualcuno, senza volere, capitava di pensare: "Magari").

Forse ai nipotini la racconteremo in questo modo: quand'eravamo giovani ci divertivamo, c'era molta ricchezza e libertà, poi caddero le Twin Towers e tutto cambiò: la borsa andò giù, il prezzo delle zucchine saliva, l'estate finiva in un lampo ma il campionato non iniziava mai.
Naturalmente le cose non stanno così. Persino gli organi di stampa del pensiero unico riconoscono (oggi) che la recessione era già bella e avviata, un anno fa; che anzi, l'undici settembre e la guerra in Afganistan ebbero il paradossale effetto di compattare la nazione americana, l'occidente e il mondo intero intorno a una leadership fino a quel momento piuttosto traballante. Al primo bombardamento afgano George W. Bush comparve in televisione per chiedere ai suoi concittadini non di stringere la corda, come ai tempi di Roosvelt, ma di consumare come se nulla fosse successo: come se Bin Laden, mirando al World Trade Center, volesse scoraggiare gli americani a fare la spesa.
Hanno fatto quel che hanno potuto, i concittadini di Bush, per tenere alta la domanda e far girare il mercato. Hanno stretto i denti e hanno continuato a consumare as usual. Ma quando anche i tranquilli pensionati della Florida hanno visto crollare i loro fondi pensione nei crack di primavera, qualcosa si è incrinato. E ora? Ora si naviga a vista. Ma chissà, forse bombardando l'Iraq…

Eppure è probabile che ai nipotini la racconteremo così: prima si stava bene, poi caddero le Torri. Perché lo shock dell'undici settembre ha davvero tracciato un segno nelle nostre vite.
Non che prima vivessimo in una campana di vetro. Anzi, ci tenevamo piuttosto informati, e non si può dire che tutto quello che è successo dopo ci abbia colto di sorpresa. Sapevamo che l'inquinamento atmosferico stava cominciando a influire sul clima del pianeta. Sapevamo che l'economia neoliberista stava creando tensioni sociali sia nel Sud che nel Nord del mondo. Sapevamo che nei Paesi del Sud queste tensioni sfociavano nel fanatismo religioso, e nel Nord nella xenofobia e nell'egoismo sociale. Sapevamo tante cose. Ma un conto è saperle, un altro è viverle, sulla propria pelle.

Tutte queste cose, che sapevamo, dal 2001 (primo anno del secolo nuovo) abbiamo cominciato a viverle. Tutte insieme. A dire il vero, l'Undici Settembre non è stato che un segno tra tanti. Prima c'era stata Genova, dopo c'è stato l'assedio alla Natività di Betlemme, la crisi di credibilità di Wall Street, lo sciopero generale in Italia (con una mobilitazione senza precedenti nel dopoguerra), le alluvioni estive in Europa. Tanti 'piccoli' eventi, che ci dicono la stessa cosa: i nodi stanno venendo al pettine, siamo al punto di non ritorno.
Un movimento di opposizione al neoliberismo esisteva anche prima delle giornate di Genova: ma la guerriglia urbana e la repressione di un anno fa sono un fatto nuovo. Lo sterminio dei palestinesi (e la guerra sporca dei terroristi contro Israele), non sono iniziati un anno fa: ma quest'anno hanno fatto più vittime dell'attentato alle Torri. La tensione sociale non è una novità in Italia, ma oggi mobilita milioni di persone che nel 2000 avevano assistito passivamente all'instaurazione del governo Berlusconi. La speculazione finanziaria toglie risorse all'economia reale da vent'anni, ma solo quest'anno è scoppiata la bolla dei falsi in bilancio. Il riscaldamento dell'atmosfera è lento e graduale, ma solo nel 2002 l'Europa è entrata nella fascia subtropicale e ha avuto, al posto dell'estate, una turbolenta stagione delle piogge.

Tutto quello che fino a un giorno prima era prevedibile, quasi scontato, da quel giorno in poi è cominciato a succedere. Racconteremo questo ai nostri nipotini – se ne avremo.

Scusate il tono apocalittico, sto invecchiando (soprattutto da un anno in qua).

venerdì 6 settembre 2002

Strange bedfellows (Continua da venerdì)

Guardiamo agli ultimi giorni: chi c’è? To’, D’Alema. E che dice? Che il referendum sull’articolo 18 è prematuro. Bah, magari ha pure ragione. Che i girotondi delegittimano i partiti. Che non è vero che in piazza c’è la società civile, semmai c’è qualche sinistrorso radicale che lui conosce da trent’anni. Sarà. E che bisogna rilanciare l’Ulivo, con Mastella, che infatti è entusiasta. E che no, non si è pentito del suo geniale tentativo di riformare la Costituzione con Berlusconi in bicamerale (“L'ho pagata sulla mia pelle. Non ho mai capito perché tentare un accordo sulle grandi riforme debba essere un tradimento").
Insomma, i sindacalisti, i girotondini, la cosiddetta società civile, non hanno capito nulla. Lui sì. Perché una volta buona non lo lasciamo lavorare?

Chiediamoci ora, morettianamente: cosa c’è “di sinistra” in quello che dice D’Alema? Non c’è forse più sinistra in un Berlusconi che promette di bloccare le tariffe?
E mettiamoci nei panni di un dirigente di una Spa ex municipalizzata: ma come, penserà, ci privatizzano, liberalizzano il mercato, e alla fine ci chiedono di bloccare le tariffe? E io come faccio a massimizzare i profitti, che in fin dei conti è il mio mestiere?

Io non sono un esperto, ma mi par di capire che le grandi privatizzazioni, in Italia, le hanno fatte tutti i governi, da Andreotti in poi. Governi di Centro-Destra, Centro-Sinistra, tecnici. Tra questi governi il “Berlusconi Uno” (1994) e il “Due” (2001-2002) non si sono distinti per lo zelo, anche perché i neoliberisti di destra devono fare i conti con la resistenza interna di Alleanza Nazionale. (Qualcuno ha mai chiesto a un Fini, o peggio ancora a uno Storace, che ne pensasse della Tobin Tax?) Forse ha privatizzato più D’Alema che Berlusconi, se non altro perché ha governato un po’ di più.

Ma restiamo su Chirac e Berlusconi. Uomini di destra, senza dubbio. Ma per prima cosa, politici (anche Berlusconi ormai ragiona più da politico che da imprenditore). Abituati a fiutare l’aria, e interessati più al consenso che ai dogmi di fede. E se ieri il “pensiero unico neoliberista” poteva essere un valido strumento di consenso, oggi appunto l’aria è diversa, a Roma come a Parigi (e a Johannesburg). Non è da escludere che dopo un primo anno ‘liberista’, Berlusconi indossi veramente i panni del presidente operaio e ci dia un anno di allegro peronismo. Perché no? D’Alema avrebbe mai promesso di bloccare le tariffe? No. Berlusconi può farlo, è coperto a destra, e poi ce ne ha già promesse tante…

Allo stesso modo, Chirac è un politico, interessato in primo luogo alla sua auto-conservazione. Non è mai stato un fanatico del libero mercato, oggi che l’economia globalizzata mostra la corda ha ancora meno motivi di esserlo. Chi può impedirgli di impugnare la Tobin Tax contro le multinazionali, che per di più hanno quasi tutte sede a Washington? Ed ecco qui non soltanto un Conservatore dal Volto Umano, ma anche il classico gollista, difensore dell’identità nazionale francese.

Concludendo: a volte Destra e Sinistra significano poco o nulla. Noi che tanto critichiamo l’uninominale e il bipolarismo, per prima cosa li dovremmo disattivare nella nostra testa. Proprio perché è di Destra (una destra tipicamente francese, civile e repubblicana) Chirac ha qualche interesse a parlare di Tobin Tax.
Non dico che non sia il caso di diffidare di lui. Ma il movimento, che chiede “meno economia e più politica”, deve abituarsi a compagni di letto come lui. C’è tutta una nomenklatura, una classe di tecnocrati e politici che non chiedono di meglio per rimettere le mani su un po’ di consenso (e su un bel po’ di soldi e potere). Magari è la stessa gente che ha preso bustarelle o stock options e ha finto di non vedere le falle del neoliberismo. Ma i politici sono fatti così.

A dire il vero, un politico coerente e tutto d’un pezzo c’è: è lui, D’Alema. Lui non cambia mai, se tutti vanno in piazza lui non ci va, se tutti firmano per un referendum per lui è un errore. Anche lui commette errori, ovviamente, ma poi fa autocritica e rimane al suo posto. Caso singolare di un politico che ha deciso di non fiutare l’aria, di non cercare il consenso, di restare fedele per prima cosa a sé stesso. È di Sinistra? È di Destra? È un politico? Più semplicemente, è D’Alema.
Strange bedfellows

L’anticomunismo provoca strani compagni di letto (Edgar Hoover)
Destra-Sinist’, Destra-Sinist’ (Giorgio Gaber)

È più di sinistra Chirac, D’Alema o Berlusconi?

C’è un po’ di subbuglio nella mailing list di attac, perché pare che Chirac a Johannesburg abbia detto qualcosa di favorevole alla Tobin Tax (nessun linc a disposizione, mi dispiace, ero distratto).

Ma come, hanno detto alcuni, Chirac non è un personaggio di destra? Cosa c’è sotto? Vorrà strumentalizzarci, senza dubbio, ecc.… Altri fanno giustamente notare che la nostra Tassa preferita, per come fu formulata da Tobin negli anni Settanta, non era poi così ‘sinistra’, e semmai siamo stati noi a impossessarcene e a strumentalizzarla in senso radicale. Cosa che c’è riuscita piuttosto bene – ma perché non dovrebbe provarci anche Jacques Chirac? E chi siamo noi per stigmatizzarlo? I sacerdoti ortodossi di Tobin? Non credo.

Quanto a Chirac, senza dubbio è un leader politico di destra, e non brilla nemmeno per dirittura morale, anche se la carica di Presidente gli garantisce l’immunità.
Tuttavia mai come in questo caso la logica unidimensionale Destra vs Sinistra mi pare fuorviante. Solo perché non è della nostra parrocchia Chirac non potrebbe essere d’accordo con noi? Siamo sicuri?

In Francia esistono tre, quattro destre, e nessuna somiglia per forza alla destra italiana. C’è un’estrema destra fascista e xenofoba, che è forse quella che conosciamo meglio grazie a tv e giornali. C’è una destra moderata e liberista che spinge per le privatizzazioni, ma da quel che mi è parso di capire non è molto forte. Ma ancora ci sono gli anti-europei che si sentono svenduti alla Germania, i campagnoli oppressi dalla città, i Cacciatori contro i Verdi, ecc.… tutta gente non necessariamente entusiasta del neoliberismo.

In mezzo a tutto questo, c’è la massa critica del neo-gollismo, che non è un’ideologia e nemmeno un partito (Chirac ne ha già fondati un paio, direi), eppure esiste, e ultimamente si è rimesso anche a vincere le elezioni.
Cosa sia il neo-gollismo francamente non lo so, e credo che molti francesi anche di destra non lo sappiano. È un apparato di consenso che rifiuta di allearsi con l’estrema destra (magari per calcolo, ma con un’ammirevole coerenza, almeno negli ultimi anni) e mantiene la barra su un liberismo moderato. Quest’aggettivo, moderato, va qui inteso nel senso letterale, cioè opposto a quello che ormai gli diamo in Italia, dove i cosiddetti moderati sono in realtà gli ultras della politica neoliberista. Ma il neoliberismo stenta a ingranare le marce in Francia, un Paese tradizionalmente corporativo e protezionistico, con un Welfare tra i più sviluppati ed esosi al mondo (incidentalmente noto qui che è anche il secondo Paese al mondo secondo l’Indice di Sviluppo Umano).

Ora, dove credete che incontri le maggiori resistenze il neoliberismo in Francia? A Destra o a Sinistra? Chi credete che abbia privatizzato con più solerzia, la destra neogollista o la ‘sinistra plurale’ di Jospin? Io non lo so, ma dubito che l’equazione destra = neoliberismo funzioni così bene in Francia.

A dire il vero, ho qualche dubbio che la stessa equazione funzioni sempre anche in Italia.
Guardiamo agli ultimi giorni: chi c’è? To’, D’Alema. (continua lunedì)

lunedì 2 settembre 2002

Mangiato pesante?
Dove sono? Cosa faccio? Dormo molto e faccio sogni strani, per esempio una conferenza stampa di Moratti che dichiara: "tranquilli, Cofferati resterà in Pirelli", e cose così.
Buona notte.




domenica 1 settembre 2002

Se per caso cadesse il mondo

In fondo siamo tutti un po' vergini – non in quel senso, no, ma è come se compissimo tutti gli anni ai primi di settembre, come il nostro eroe: le scuole riaprono, le ditte si rianimano, si ricarica il telefono e si conta un anno in più – ma è la volta buona che lo metteremo a frutto, più sport e meno alcolici, e anche Internet, lo consumeremo con moderazione. Ma poi questi tramonti così anticipati ci stringono il cuore e andiamo a rifugiarci alla festa dell'Unità.

Anche qui, teoricamente, l'anno in più dovrebbe farsi sentire: non ne passa uno che la mia voglia di birra, divorante lungo tutta l'estate, non vada a placarsi nelle pessime pinte di plastica dello Spazio Giovani. Ora, il problema è che giovane, almeno in teoria, non lo sono più. Temo di essere ormai in età-Florida, lo stand dove dai trenta in su si coltivano i rapporti interpersonali a ritmo di salsa e merengue. (Odio la salsa, ma credo sia inevitabile, come i capelli bianchi o la carie: un bel giorno te la ritrovi dentro te, e non ci puoi fare niente, salvo imparare ad apprezzarla). L'alternativa – il trentenne giovanile che occhieggia le sedicenni allo Spazio Giovani non è altrettanto patetico, oltre che perseguibile per legge?

No, pare di no. Allo Spazio Giovani è pieno di gente che ha la mia età, la mia cosiddetta "generazione", che sembra aver comprato dieci anni fa il copyright della parola "Giovane", e non è ancora intenzionato a separarsene. Tanto che forse le generazioni successive dovranno coniarsi un aggettivo diverso, non so, "post-giovane".
La scaletta del dj dà un po' la misura del fenomeno. Non mi pare di aver sentito un pezzo uscito dopo il '99, si direbbe che i discografici abbiano tutti chiuso col secolo nuovo – e forse gli conveniva. Adesso che ci penso sono due-tre anni che in tutti posti dove vado incontro dj che rifiutano l'attualità: c'è una specie di koiné nostalgica che prevede reggae, funky, disco, i fantastici anni '80 che a viverli c'erano parsi insopportabili, con qualche saltuario scippo di nostalgie altrui, Caterina Caselli e bandiera gialla. Si tratta, probabilmente, di una reazione all'elettronica, ma anche al tempo che passa, o no?

Per di più, non so voi, ma io ho sempre sperimentato che fiore delicato sia la nostalgia, e le cassette degli anni passati le stappo con una certa cura, e poi le rimetto via: fatte le debite proporzioni, anche Proust consigliava di andarci piano con le madeleine, perché dopo l'effetto iniziale ci si rimedia al massimo un'indigestione. Vorrei poter spiegare al dj che mette su Raffaella Carrà di andarci piano, che la prima e forse anche la seconda volta la Carrà mi ricorderà l'infanzia, ma da lì in poi comincerà a ricordarmi altre sere d'autunno in cui un dj metteva su Raffaella Carrà, e a questo punto avrò dato via i miei ricordi in cambio di una canzoncina, è un affare in perdita.
Tanti auguri – patapum! – a chi tanti amanti ha
Tanti auguri – patapum! – in campagna ed in città
"Sei pensoso, a cosa pensi?"
"All'anno scorso, ero qui con una birra in mano ad ascoltare questa canzone".
"Fa pensare, eh?"
"Mah".

Pensavo che invecchiare, finché la carcassa tiene, assomiglia a una caduta nello spazio profondo, dove non c'è attrito: tu sai che stai cadendo, ma non senti niente, non soffri nemmeno. L'unica cosa di cui puoi accorgerti è che i punti di riferimento (l'astronave, il pianeta terra, ecc.) si allontanano da te. Così, l'unico indizio del mio invecchiamento è che intorno a me dovrebbe esserci gente sempre più giovane. Ma questo allo Spazio Giovani non avviene, e credo di aver trovato a chi dare la colpa. Hang the dj!

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