Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

sabato 23 dicembre 2006

- non è Natale se non è relativista culturale

Gli spettri dei Natali passati

Tutti mangiamo il panettone a Natale, ma solo i credenti sanno perché lo mangiano. Non è che il loro panettone sia necessariamente piú buono di quello dei non credenti: è semplicemente piú ragionevole.
(Cardinale Biffi)

1) Publio Plinio a Domizio Rufo:
"Carissimo, ti auguro con questa epistola di trascorrere un buon Natale del Sole. Non so da voi, ma qui a Mediolanum ormai lo festeggiano tutti: persino i cristiani! Sì, anche quella setta di santoni pseudoebrei, gli adoratori dei crocefissi, dopo qualche resistenza ormai si sono decisi a festeggiare come tutti gli altri.
Non c’è che da apprezzare la saggezza del nostro grande imperatore Aureliano, che volle rendere ufficiale la festa, l’ottavo giorno prima delle Calende di Gennaio. Noi cittadini dell’impero siamo diversi per lingua, razza e religione, ma tutti siamo scaldati dallo stesso Sole, che dopo il freddissimo Solstizio d’Inverno ora ricomincia timidamente a riallungare le giornate. Né Aureliano volle inventarsi una Festa di sana pianta, ma lungamente studiò il problema coi suoi collaboratori, scoprendo che la festa della Rinascita del Sole è la più universale; anche se alcuni lo chiamano Mitra, altri Elagabal, altri Helios: in fin dei conti è sempre lo stesso per tutti, e tutti ugualmente ci riscalda.

Solo i cristiani, nella loro superstizione, sono convinti di non adorarlo. Ho appreso da un mio servo, che partecipa alle loro riunioni, che pure loro mangiano gli stessi dolci impastati con frutta candita e miele: ma non per festeggiare il Sole a cui devono la frutta e i fiori, bensì la nascita del loro Dio, o profeta (essi non hanno chiara la distinzione tra i termini), Gesù Cristo.
Confesso di essere affascinato dall’ignoranza che nutrono per la loro stessa religione. Avendo dato un’occhiata, per curiosità, ai loro libri sacri, so bene che in nessun giorno del calendario è fissata la data di nascita del loro eroe. Stavo quasi per dirlo al mio servo, ma a che pro? Non sa leggere. Ma lasciamolo pure mangiare il suo pane dolce e i suoi canditi, anche se ignora l’autentico significato di ciò che fa".

2) Ebrhardt a Kwenghjil
"Gran figlio di vacca visigota e padre ignoto, come va? Spero che in Hispania faccia meno freddo che qui. Tra un po’, grazie al cielo, le giornate si riallungheranno. Nel frattempo io me ne resto accampato in questa nebbiosa valle padana. E mi si gelano i coglioni.
Mi gelano anche perché la mia Orda ha deciso di convertirsi in blocco a quella religione del menga, il Cristianesimo.
Dicono che conviene farsi amici i vescovi, che sono i veri capi delle città. Mah. Fosse per me avrei giù brindato coi loro teschi disossati, ma forse hanno ragione. Ci vuole gente che sappia amministrare tutto questo casino.
Del resto mi conosci, io di religione mi sono sempre interessato quanto bastava per portare le fanciulle alle orge. Però, boia d’un Thor, non toccatemi Odino! Te lo ricordi, Kwenghjil, quando eravamo bambini e la mamma ci diceva di mettere fuori gli stivali pieni di carote per il cavallo del dio Odino?
Era due giorni dopo il solstizio d’inverno, come oggi. Nella notte lunghissima il dio con la barba bianca portava gli eroi caduti a una battuta di caccia. E quando si fermava alla nostra stalla, dovevamo essere a letto e non fiatare, se volevamo che ci riempisse gli stivali di nocciole al miele e altre leccornie.
E adesso mi spieghi, Kwenghjil? Se mi converto al cristianesimo, cosa ci racconto al mio nipotino? Ha il diritto di credere in Odino anche lui, o no?
Ieri sera l’ho preso davanti al fuoco e ho attaccato con la storia del dio che cavalca nella notte. Si è messo a piangere come un puledrino! Ben ti sta, mi ha detto mia moglie. Basta con queste storie di Dei barbari a cavallo, mi dice, sei vecchio, aggiornati! Se non fossi il vecchione che sono l’avrei impalata lì dov’era! E invece l’ho lasciata fare: ha preso in braccio il marmocchio e (non credevo alle mie orecchie) ha completato il racconto spiegando che Odino era un dio cattivo e feroce, che abitava nei boschi, ma poi ha incontrato un tale San Nikolao, Santa Nicola, non so, che ha convertito pure lui, e da allora è buono e porta i dolci dal camino!
...E poi dimmi se a uno non devono gelarsi le palle. Dove sono finite le tradizioni dei nostri padri? È tutta una schifezza. Meno male che posso mangiarmi ancora le mie nocciole al miele. Le mangio alla tua salute, vecchio scannagalline".


3) Ing. Taddei Barnaba a Dott. Taddei Luciano
"Ciao dutùr, spero che ti passi un buon Natale. Qui a Milano è un freddo cane come sempre (e poi dicono il riscaldamento globale, bah). Ma se Dio vuole, da qui in poi ci si riallungheranno le giornate.
Ti saluta anche tuo nipote – perlomeno ti saluterebbe, se riuscissimo a staccarlo da quella plaistescion rivoluzionaria che gli hai regalato. Che sia l’ultima volta: siamo seriamente preoccupati. Da mezzanotte alle nove del mattino è rimasto lì impalato a dimenarsi davanti al televisore. Al che mia moglie gli ha detto: “Ma devi proprio giocarci da solo? Perché non inviti i tuoi amici?”
Gli amici di mio figlio: un cinese, un turco e un Di Gennaro. Tre ore chiusi nella stanza a dar di matto con quell’affare. A un certo punto blocco mia moglie nel corridoio con in mano un vassoio di panettone: ma sei sicura? Le ho detto io. E se è contro la loro religione?
Ma che religione e religione, fa lei. È un dolce, non lo proibisce nessuno. Appunto, faccio io, è un dolce di Natale, cosa vuoi che sappiano in Cina? Loro mica ci credono, in Babbo Natale. E poi c’è un turco, figurati.
Proprio in quel momento dal bagno salta fuori Giampiero, e alza le spalle: Papà, dice, veramente Babbo Natale viene dalla Turchia. Ma che Turchia e Turchia, dico io, chi te le racconta queste cose? La prof di religione, dice lui. Ci ha spiegato che Babbo Natale è San Nicola, e San Nicola è nato in una città che adesso è in Turchia. Ah, sì? Vorrà dire che l’anno prossimo ti esentiamo dalla materia, visto che la tua prof non sa nemmeno che San Nicola sta a Bari!
E vai!, ha detto lui. Che stronzetto ho messo al mondo.
Alla fine se lo sono sbafato, il panettone. Glie n’è fregato assai, di sapere perché lo mangiano. Che mondo. Che mondo.
Speriamo in un po’ di sole".

(...E un buon Natale di Sole a tutti quanti).

giovedì 21 dicembre 2006

- I scratch a living, it ain't easy

Disco 2006

Non è che non piacerebbe anche a me, stilare la top 10 dei dischi dell’anno. Se solo quest’anno fossi riuscito ad ascoltarne 10.

La verità è che ho raccolto solo qualche canzone sparsa qua e là, e non ha molto senso metterle in ordine. Tutto quello che riesco ad allestire è una piccola cerimonia per… la Canzone dell’Anno.

Ma intendiamoci, la Canzone dell’Anno 2006 non è la più bella del 2006, non ci tengo ad essere fatto a pezzi. La mia preferita, se proprio v’interessa, è Young folks, un inno al rapporto di coppia contro tutto e contro tutti. O perlomeno così ho voluto capirla (e fischiettarla) io. Chi non l’ha mai ascoltata non ha da rimproverarsi, fa ancora in tempo a documentarsi (via polaroid ovviamente, è roba svedese). Ma non credo che a molti Young folks possa ricordare particolarmente il 2006.

La Canzone dell’Anno, invece, è la canzone che dovrebbe aiutarci a capire che razza di anno è stato questo. Va pescata nell’heavy rotation delle radio o di MTV: tutti dovrebbero averla sentita almeno una volta. Probabilmente è un pezzo in inglese, eppure dovremmo aver capito almeno il ritornello. Per fare un esempio, la filastrocca sulle biciclette a Pechino. Abbiamo tutti capito che sono nove milioni. Ecco. Il 2006 è stato l’anno in cui ci siamo resi conto che a Pechino ci sono nove milioni di ciclisti (molti in procinto di motorizzarsi), “It's a thing we can't deny”. Non resta che amarsi fino alla morte. Così forse Katie Melua potrebbe aver cantato la Canzone dell’Anno. Se la metafora politica non fosse stiracchiata assai.

E allora? Probabilmente bisognerebbe incoronare Lily Allen, ha messo d’accordo fin troppa gente. In settembre, mentre cercavo di risintonizzare l’autoradio abbandonata per due mesi in un parcheggio, non facevo che saltare di Smile in Smile, roba da piangere. E pensare che fino a qualche mese prima era un pezzo su MySpace. Già. E “L’inno dei mondiali po-po-po-po-po” era ancora “Seven Nation Army”. Quel tipo di cose che succedevano nel 2006. Ok, vada per Lily Allen, persona dell’anno. Ma davvero non c’era niente di meglio in giro?

Io mi butto. Secondo me la canzone dell’anno è Cash Machine. Probabilmente non ve la ricordavate più. Ma dovreste averla sentita, almeno una volta: io per esempio la stavo ascoltando mentre decollavo da Bologna, quest’estate. Gli Hard-Fi sono l’ennesimo gruppo inglese: non suonano nulla di particolarmente originale, e anche il pezzo non è un capolavoro. Niente da ballare o fischiettare. Ma ti rimane in testa.


E dopo un po’ germoglia. Sapete com’è l’inglese, per noi. Molti messaggi ci arrivano per via subliminale. Ci metti un po’ a renderti conto di un fatto banalissimo: Cash Machine è una canzone sul denaro. Su quanto sia frustrante non averne.

Go to a cash machine
To get a ticket home
Message on the screen
Says don't make plans, you're broke

Da quand’è che non si parlava di denaro in questi termini, nelle hit parade? Per quanto mi sforzi a me non viene in mente altro che Mick Hucknall quando cantava Money’s to tight to mention. E poi basta, fine, il pop ha goduto vent’anni di paghette garantite. Finché un bel giorno questo ragazzino inglese arriva davanti al bancomat e…

I scratch a living, it ain't easy
You know it's a drag
I'm always paying, never making
But you can't look back
I wonder if I'll ever get
To where I want to be
Better believe it
I'm working for the cash machine

Non sono versi immortali, è un grido di dolore abbastanza banale: come ogni dolore, del resto. Viene il giorno in cui ti accorgi che il bancomat non lavora per te: sei tu che lavori per lui. Quel giorno per molti è arrivato nel 2006. E nel video – tenetevi forte – ci sono gli operai! In pieno giorno, su MTV, gli Hard Fi travestiti da minatori fabbricano le odiose banconote. Se siamo tutti imprenditori di noi stessi, siamo anche gli operai di noi stessi. Siamo da una parte e dall’altra di quello sportello. Si chiama alienazione, e il pop non ne parlava da un pezzo.

Nella terza strofa il dramma diventa famigliare. “What am I gonna do? My girlfriend's test turned blue!” Levare le tende perché non puoi permetterti “di essere un papà”? È una mia impressione, o fino a qualche anno fa sarebbe stato incantabile? Pensate solo al 2005, quando i Kaiser Chiefs cantavano “and my parents love me, that’s enough love for me”. È stato un anno lungo. Qualcuno ha scollinato. Il pezzo finisce intonando un coro normalissimo, ma che potrebbe venire da un vecchio blues del Delta: There's a hole in my pocket, my pocket, my pocket. Non è un capolavoro, no. Ma Cash machine è la Canzone del 2006.

E poi – ma questo forse l’ho sentito solo io – c’è quel vago suono di armonica, all’inizio, che per un attimo ti fa sentire di nuovo tra una track e l’altra di Sandinista! Davvero, soltanto una frazione di secondo. Ma sarebbe stato bello se un giorno qualcuno ripartisse da lì.

martedì 19 dicembre 2006

- uomo dell'anno, proprio io

Big in 2006

Oddio, c’è da stappare lo spumante.
Lo avevo preso per Natale, ma a questo punto.

Non credevo di meritarmelo, davvero. Ma se insistete non posso che ringraziare tutti gli amici che mi hanno incoraggiato e spronato anche quando io stesso mi stavo stancando di cazzeggiare davanti al computer.
Credevo di rubare tempo a cose più nobili, pensate.
E invece eccomi qua: Uomo Dell’Anno. Quando lo saprà la mia mamma. Ehi, mamma, hai visto? ce l’ho fatta!

Che fare ora? Mah, direi di continuare così. Senza esagerare. O credermi chissachì. Io resto quel sano ragazzo di provincia che avete imparato ad apprezzare – e tuttavia, se al Time oltre a osannarmi mi leggessero con più attenzione, comprese le ultimissime cose che ho scritto, saprebbero che mettere uno schermo in copertina è un’operazione fortemente ambigua. E poi, che tipo di schermo, lo avete visto? In realtà è più simile a una postazione televisiva, coi comandi di YouTube. Un’incarnazione sinistra: “ok, uomo dell’anno, sei forte, hai condiviso un sacco di pensieri e commenti; ora rilassati che arrivano i video, e di qui a qualche anno saranno sempre più interessanti e professionali”.

Adesso che ci penso, tra un paio di settimane sarò l’Uomo dell’Anno Scorso.
Rimetto in frigo lo spumante.

Lo ammetto, mi imbarazza un po’. Io mi considero un uomo a tutto tondo, sapete. Non passo mica tutto il giorno davanti a uno schermo, io. Vivo in mezzo alla gente. E ok, capisco, tutto l’inviluppo dei miei rapporti umani sulla copertina di Time non ci stava, ma fotografarmi così, proprio nella situazione di massima solitudine…

Non mi va. C’è questo luogo comune, duro a morire, dell’internauta solitario e segaiolo. Si organizzano anche convegni di psicologi, molto preoccupati dalla tendenza di questi internauti a comunicare tra loro stando a casa. Per essere psicologi, bisogna dire che sono un po’ ossessionati dalla fisicità. Se la prendono con Internet perché adesso comunichiamo con Internet, ma probabilmente qualche anno fa se la sarebbero presa con il telefono. E prima ancora con l’alfabeto Morse e ancor di più coi rapporti epistolari, che incoraggiavano le persone a vivere rapporti virtuali e fittizi e gli impedivano di uscire in strada e toccarsi tra loro. Probabilmente non bisognava inventare la scrittura; maledetto il primo uomo che invece di tirare i capelli alla sua favorita ha fatto un segno sulla parete.

Sono baggianate. Noi non siamo soli. Coltiviamo un sacco di rapporti, grazie a Internet. Tutti vogliono parlare con noi, perché siamo gli Uomini dell’Anno! Per undici giorni ancora.

Vabbè, sì, dovrei essere felice, ma… è che proprio oggi ho fatto un salto su Indymedia Italia, ed era chiusa. Che tempismo, eh? Chiudere qualche settimana prima l’incoronazione del Time. E dire che prima di tante chiacchiere sul Web 2.0, c’era semplicemente l’intuizione di Indy: Don’t hate the media, become the media. Sostituire alla paranoia anti-sistema degli anni Novanta una sana pratica di controinformazione quotidiana. È quello che ha iniziato a fare Indy in Italia nel 2001. È quello che ora stanno facendo i blog (mica tutti, anzi pochi). Perché i blog sono sopravvissuti? Perché sono piccoli e personali. Indy invece aveva un’ambiguità fondamentale. Era un sito collettivo, ma chi era il collettivo? Da qualche parte c’era un “noi”; perlomeno c’era il tentativo di costruire un “noi”. Ma non era facile. Col tempo la bacheca libera a tutti (il newswire) si è rilevato uno strumento troppo grezzo. A volte un boomerang: si andava su Indymedia in cerca di sciocchezze per screditare un intero movimento. Era troppo facile e non costava nulla.

I blog invece sopravvivono. Perché sono piccoli e individuali: ognuno si prende la responsabilità del suo orticello. Io potrei mettermi a cantare le lodi di questa rivoluzione pacifica: la piccola proprietà intellettuale. Ma da qualche di tempo a questa parte sto dubitando di tutti i discorsi stile “piccolo è bello”. I blog hanno un limite strutturale.

Sono davvero siti individuali. Se siete curiosi di queste cose potete andarvi a vedere le mappe di BlogBabel pubblicate dal Sole 24 Ore (e da Qix). Descrivono un universo corpuscolare. Solitudine no, assolutamente: anzi, milioni di relazioni; ma tra corpuscoli. Indymedia veniva davvero da un mondo diverso. Vi ricordate la parola tormentone del movimento nel 2001-02? voi no, io sì: era “moltitudine”. Il movimento cercava di federare, inglobare, associare persone diverse; sotto sotto c’era ancora la vecchia ambizione novecentesca di vederli sfilare compatti. E qualche volta è successo: abbiamo sfilato compatti. Ma ormai sono cose che lasciamo ai berlusconidi.

Siamo polvere di stelle; molto bene; e abbiamo intenzione di diventare qualcos’altro? Non lo so. Per quanto mi riguarda, può darsi che il blog sia il mio limite strutturale. Non riesco a fare nulla di meglio. Non riesco a dire nulla che non passi dal mio “Io”; non sono affatto solo, conosco un sacco di gente, ma con nessuno tento più di costruire un “noi”. Sarà anche pigrizia da parte mia. Invecchio, sapete. Ma ero grande, nel 2006.

sabato 16 dicembre 2006

- compra Leonardo compra Leonardo compra

Natale ormai è qua e come tutti gli anni non riuscite a trovare nulla per la cognata
Che non passi sotto silenzio: Leonardo, il miglior blogger d'Italia e presumibilmente del mondo, ha raccolto ed editato alcuni dei suoi post in un libro. Conoscendolo, un'opera assolutamente imperdibile. Non ci ho ancora messo le mani su, ma l'ordine è già partito. Seguite l'esempio, non ne rimarrete delusi.

Inkiostro (che ringrazio)
(Segnalatemi le vostre stroncature di Storia d'Italia a rovescio, non siate timidi. Al limite vanno bene anche i complimenti).

giovedì 14 dicembre 2006

- o quanta species cerebrum non habet

Specchio riflesso


Si passano degli anni, ultimamente, davanti a uno schermo, con l’aria di cercare chissà cosa. Verità, probabilmente: previsioni, revisioni, sunti, tracce del passaggio del mondo. Stasera però mi è venuto in mente cosa voleva dire “schermo”, all’inizio. Voleva dire maschera. Maschera protettiva.

Naturalmente questo non significa nulla. Capita che le parole cambino il loro significato nei secoli, embè? Pasticciare con le etimologie è da sfigati, se non ti chiami Heidegger (e anche se). Tanto più che il mio Zingarelli mi dà una radice longobarda, skirmjan (tirare di scherma, proteggere). I Longobardi, capito? Devono averci lasciato tre parole in croce, e una sola riassume tv, computer, playstation, videofonino: “schermo”.
E vuol dire “maschera”. Ti dà il rovescio di quel che cerchi. Del resto anche lo specchio, non fa lo stesso?

Sembra un discorso da risvolto Adelphi, ma io in realtà avevo in mente le pubblicità del grana. Se ne parlava l’altro giorno da Inkiostro (il più grande blog del sistema solare e, auspicabilmente, della galassia). Il dilemma è noto a chiunque abbia spinto un carrello della spesa almeno una volta nella vita: in Italia esistono sostanzialmente due formaggi grana. Il Parmigiano Reggiano è buono, il Grana Padano è cheap. Che fare? Spendere meno o gustare di più? La gola ha i suoi diritti, ma solo oltre una certa soglia. L’ISTAT, se la dirigessi io, terrebbe un bel riflettore puntato sul reparto latticini: chi passa al Parmigiano, ha trovato un impiego stabile; chi passa al Grana, lo ha perso (se avete grattugiato del parmigiano sui maccheroni mentre eravate Cocoprò, siete dei maledetti irresponsabili. Se continuate a spolverare grana sulle lasagne ora che avete la Tredicesima, siete tirchi e punto).

Tutto questo si riflette nelle pubblicità. Ma all’incontrario: il Grana Padano si maschera da prodotto di lusso, concupito da vitelloni eleganti e modelle brasiliane. E intanto il Parmigiano sbraca, si dà al trash anni Ottanta, riprende i Ricchi e Poveri, la famiglia Addams e il carnevale di Viareggio. Il party a base di Grana Padano è la vita dei ricchi come l’immaginano i poveri; le coreografie del Parmigiano Reggiano sono una sontuosa citazione dell’intrattenimento di bassa qualità. Tutto questo che senso ha? Forse nessuno. Forse cercano entrambi di allargare il loro bacino di utenza. Ma se è normale che il Grana Padano cerchi di darsi un tono (anche maldestramente), il caso del Parmigiano stupisce. Siamo davanti a un imputtanimento consapevole, ed è una cosa che dà da pensare (un po’ come per Lindo Ferretti). Abbiamo visto tutto in questi anni, ma un prodotto che cerca consapevolmente di peggiorare la propria immagine è ancora cosa rara (“Scordiamoci tutte quelle menate sulla qualità! Facciamo cantare i bambini! Pa-pa-pa-pa-parmigiano re…”)

In realtà io scrivo accecato dall’ira, perché gli ufficiali del marketing del consorzio hanno da tempo accantonato il mio testimonial preferito, la Vacca Volante. Quella che cercava in ogni modo di entrare nel recinto delle vacche da parmigiano, ma ogni volta veniva respinta dalla malasorte, mentre il contadino la sfotteva col tormentone: “No-o! Non so cosa mangi!”
La vacca non era trash, era animazione di qualità con tutti i ritmi giusti. Citava i Looney Tunes, scusate se è poco. Ma è vero quel che mi disse una volta la Laura: era una pubblicità razzista. C’è un recinto, e c’è una vacca che non può entrare. Perché è povera, perché è nata sul lato sbagliato del recinto, perché ha ingerito mangime non tracciabile. La Vacca è simpatica, ma è un frutto delle fobie dell’Europa post-encefacilite spongiforme. La sua pazzia è sospetta. Tutto dev’essere tranquillo, ordinato, tracciato. L’ordine è qualità. Noi vogliamo bere il latte di mucche tranquille e ordinarie. Stiamo chiudendo l’Europa in un recinto, perché abbiamo paura dei poveri e dei pazzi che non si sa cosa mangino.
Ma poi, davanti allo schermo, tifiamo per la Vacca Volante. Perché lo schermo è fatto così: ci racconta l’opposto di quello che già sappiamo. E forse è stato così sempre: il primo eroe animato è stato un topo. Non la creatura immaginaria e stilizzata che è adesso: a quei tempi il topo era un animale tristemente familiare, il peggiore inquilino di tutte le case. La gente passava il tempo a dare la caccia allo scroccone schifoso e impestato. Ma poi andava al cinema, e tifava per Jerry contro Tom. Questo è lo schermo. E voi vi fidate di quel che vi trovate scritto davanti al naso. No. Credete piuttosto al contrario.

martedì 12 dicembre 2006

- viens ma petite fille dans mon comic strip

Chiama Carlotta, disperata: “l’iscrizione! Ti sei ricordato l’iscrizione?”
A che, a cosa? “L’iscrizione all’anno accademico”. No. Nessuno mi ha… ma quando scade? “Domani! Prendi il treno! Il taxi! Il flipper! Ricordati il libretto! Il tesserino! La ricevuta della rata! La marca da bollo! Hai pagato la rata? Hai fatto firmare il libretto? Domani! Scade domani!”
Io cosa posso fare? Prendo il treno, col mio tesserino e libretto, pago la rata, la marca da bollo, e poi passo in facoltà a farmi stampare la domanda d’iscrizione.

In Comic Sans.
Il Comic Sans è un font relativamente giovane, al centro di una feroce controversia tra i grafici e il resto del mondo. I grafici, infatti, lo odiano. Al punto di avere attivato una campagna internazionale di denigrazione, attraverso un sito internet (Ban Comic Sans: eliminiamo il Comic Sans). In un primo momento i grafici se l’erano presa direttamente con l’inventore del Font, Vincent Connare (forse lo stipendiato più odiato della Microsoft dopo Bill Gates). Connare si è difeso, spiegando che lui aveva semplicemente disegnato un font ‘simpatico’ da usare per fumetti e cartoni animati, e non si aspettava di trovarlo sui Menu dei ristoranti, come in seguito è accaduto.

In classe è un casino, perché, perché. Ci sono tanti perché, ma sostanzialmente la classe è un casino perché il cinesino non capisce niente. Di niente. In matematica ragiona, in italiano schizza dalla sedia, e prendilo. È una trottola, un cartone, non capisce niente e la colpa sarebbe mia. Ho chiamato il padre, è venuto col traduttore. Ho iniziato a spiegare, al traduttore è squillato il telefono. Io cosa posso fare? Dico: bisogna alfabetizzarlo da capo, non sa l’italiano. Strano, alle elementari è uscito con Buono. Con Buono? Alle elementari? Vado a controllare la pagella. È la sua. C’è scritto: Italiano Buono.

In Comic Sans.
Il problema è proprio questo: che mentre i grafici di tutto il mondo lo odiano, il resto del mondo lo ama alla follia, e lo usa in qualsiasi situazione, il più delle volte a sproposito. Perché? Perché… è troppo ‘simpatico’, troppo ‘carino’. Disgustosamente carino.

Ti hanno fregato il portafoglio? Ti hanno fatto un verbale? Era un verbale in comic sans? Non è nulla. Una volta ho sentito dire di uno stupro verbalizzato dai carabinieri in comic sans – ma su google non c’è, e poi comunque in google chi ci crede (credete a Facci).

E all’inizio può essere divertente, vivere in un mondo di cartone. Dove i pezzi di carta più importanti sono scritti con le scritte dei fumetti. Ti aspetti da un momento all’altro uno she-bam, un blop, un pow, un whizz.

Ma alla lunga stanca. E' un mondo in cui niente viene preso veramente sul serio. I documenti, i verbali, i voti delle maestre. Tutto carino, tutto buffo, voglio morire. Sul serio, lo farei. Ho solo un dubbio che mi trattiene, ovvero:

Il mio nome. Sulla lapide.
In che font...

martedì 5 dicembre 2006

- oh! battagliero

Uno sguardo ardito e fiero che rincorre l'aldilà

Io non volevo troppo parlarne, ma è vero che in questi fine settimana, in queste nebbiose città cispadane, la gente col bicchiere in mano guarda il cielo o guarda i portici e non fa che chiedersi: hai visto che fine ha fatto Lindo? C’è qualcosa che possiamo fare? Per lui? O per non diventare come lui?

Non lo saverà dal cero / il suo lucido pensiero

A domanda rispondo che l’unico vero vaccino a quel che è successo a Lindo (la vocazione fulminante) andava preso da bambini. Si chiama catechismo, è abbastanza duro da mandar giù, ma se ti fai la trafila regolare dalla prima confessione alla Cresima, ti puoi considerare abbastanza immunizzato. E allora lo vedete che serve, il catechismo? E i sacramenti? Non solo per conoscere Gesù, ma per assuefarsi ai preti. Hai paura di soccombere al fascino dei preti? Vent’anni di messe alla domenica, e non ci pensi più. Nessun campanaro è mai stato fatto santo, che io sappia.
E questo ci pone un problema, amici emiliani. Siamo stati un po’ svogliati negli ultimi cinquant’anni. Quello che è successo a Lindo può davvero succedere a chiunque. Non siamo vaccinati alla vocazione. Al primo incidente, alla prima malattia grave, c’è il rischio che cadiamo come pere. Fortuna che abbiamo dei buoni ospedali.

Fortuna? Lindo è stato salvato dalla scienza, e si è convertito alla religione: così la scienza impara, a salvare i vecchi punk. Ora combatte l’uso delle staminali: guai se un giorno la gente soffrisse meno di quel che ha sofferto lui. Tutto questo è persino buffo da quanto è ingiusto: perché non succede mai il contrario? Avete mai sentito parlare di un malato salvato da Padre Pio che si converte alla ricerca scientifica e lascia tutti i suoi averi a Telethon?

Rispettoso e lusinghero il giudizio che si dà

Io non volevo troppo parlarne: chi è Lindo, dopotutto, perché me ne freghi di lui? Chi l'ha visto un po' più da vicino non credo sia troppo stupito. Lui sul misticismo ci ha sempre giocato: a fine anni Novanta venne a Modena a leggere vangeli apocrifi in una chiesa sconsacrata. Penserete a una provocazione profana, e invece no: la chiesa era l’aula magna della fondazione-collegio San Carlo, un’istituzione culturale, ed era piena di signore impellicciate e giovani in tenuta alternativa. Tutti assieme, perché questa è l’Emilia, e nelle sue contraddizioni placide Lindo ci sguazzava. Ma a noi stava bene così, pensavamo fosse una posa, un gioco. Se invece diventa una cosa seria, ci restiamo male. Interessante, no?

Ci restiamo male perché da qualche parte abbiamo letto che Lindo è uno di noi, che quel che succede a lui ha senso per voi. Ma dov’è scritto, esattamente? Quand’è che Lindo ha cominciato ad appartenerci?
C’è un po’ di confusione: abbiamo sovrapposto alcune cose. Negli anni Novanta il famoso crollo delle ideologie, bla bla, è stato cauterizzato con una botta di autoindulgenza padana. Quanto siamo simpatici noi emiliani, un po’ comunisti un po’ anche no, con Ligabue e Guccini e tutte le pubblicità di roba da mangiare in tv. E va bene.

Un giaccone color nero / marca la diversità

Ma Lindo non c’entra. Passava di lì per caso, e a osservarlo bene era chiaro che se ne sarebbe andato da qualche altra parte. Lui veniva dagli anni Ottanta, e negli anni Ottanta chiedeva una mano per bruciare il piano padano. I suoi ’80 non erano quel paradisino di plastica e gel che ci raccontano su MTV: erano quelli dell’eroina e dei bombardieri su Beirut. La sua Emilia era una patria paranoica, i circoli Arci lampi nella notte privi di qualunque poesia crepuscolare, un mondo che si sgretola e rotola via (narcotico, frenetico, smanioso, eccitante). Una terra piatta senza connessioni, dov’è impossibile incontrare davvero le persone: Lindo non smette di ricordare che i CCCP sono nati a Berlino, come se solo a Berlino due reggiani potessero incontrarsi davvero e combinare qualcosa.

Né un manipolo guerriero / lo potrà resuscitar

Lindo era punk: di quel punk intellettualoide, situazionista, che andava in quegli anni, e che noi non riusciamo più a capire, da tanto lo abbiamo metabolizzato. Adesso a Reggio ci sono gli Offlaga Disco Pax: un gruppo che tratta l'Emilia '80 come la piccola terra perduta, il Canavese di Gozzano. Sono molto simpatici, ma Ferretti non era così. Lui voleva essere davvero sgradevole, e noi ci siamo sforzati di farcelo piacere: se non è un equivoco questo. Quando provocava lo prendevamo seriamente: quando era serio, ci piaceva pensare che scherzasse. Bene, adesso è serio.

...E a me scappa da ridere. Dopo tanti anni di parrocchia li conosco, i convertiti. Intorno a loro c’è sempre una nuvola di zelo esilarante.
Pensate solo a Giuliano Ferrara, che in mancanza di meglio elegge Lindo Ferretti musa dei Teocon, con relativo effetto-Barney sulla redazione del Foglio. Pensate ai redattori costretti ad ascoltare e commentare con aria ispirata Affinità-divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Beh, non è fantastico?
Potete prendervelo Lindo, mica è nostro. Non è di nessuno. Potete usarlo come megafono, probabilmente s’incepperà, pazienza. Fatene quel che volete, ma sappiate che c’è una cosa che non riuscirete mai a fargli fare: tenere una nota. Quello è stonato. Una missione impossibile, anche per la Madonna di Civitavecchia. O no?

Corre in cielo corre in cielo...
Oh! Battagliero.

Altri pezzi