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mercoledì 31 agosto 2011

Ognibene ippopotamo in Kenya

(1996)

Esso è la prima delle opere di Dio;
il suo creatore lo ha fornito di difesa.

Giobbe 40,19

– I primi ad accorgersene sono gli avvoltoi.

Visto da una buona distanza in verticale, sembra trattarsi di un salsicciotto intriso in una densa salsa di fango. È Ognibene, che si prende cura del suo stagno. Poche settimane fa si trattava di una vasta laguna: oggi non è che una polla di melma che lo contiene a malapena. Domani, se il caldo non cesserà - e perché dovrebbe? la stagione arida è al suo culmine - sarà forse una tomba d'argilla screpolata. Ognibene ne è consapevole: diciamo pure che ne è sicuro, ora che ha sentito l'ombra nervosa degli avvoltoi danzargli sul capo. Eppure non è vecchio: il pensiero della morte dovrebbe investirlo di indignazione. Se solo non facesse così caldo, troppo caldo per pensare a qualsiasi cosa... E poi il giorno è fatto per dormire, pensa Ognibene. Se mi riuscisse di prender sonno, tutto sarebbe più semplice.

Di tanti piccoli lacchè che lo servivano e lo adoravano, non ne è rimasto che uno. È un uccelletto dal piumaggio nero, che si ostina ancora a cercar parassiti sulla crosta fangosa che copre la poderosa schiena del gigante. "Bel Dio mi sono scelto - penserà, a modo suo - un Dio che si lascia morire di siccità! A pochi voli di distanza da qui c'è il fiume: un grande fiume in giorni lontani, oggi non più che un rigagnolo, è vero: ma pur sempre un corso d'acqua limpida... laggiù gli Dei meno testardi si stringono ormai muso contro muso per conservare un posto al fresco: ma non il mio, il mio preferisce difendere il suo regno: e domani sarà cibo da avvoltoi - guardali, lassù - e da iene".


Dal canto suo Ognibene sbuffa, defeca. Un tempo questa era una gioia - nel tempo, intendi, della stagione dolce e dell'acqua limpida, quando sulla scia di feci che il gigante sparge qua e là, scodinzolando, accorrono nugoli di pesciolini festosi e variopinti. Anche per loro Ognibene è senz'altro un Dio, terribile nella sua maestosa apparizione (Signore delle correnti, Portatore di cibo, Essere immenso che trascende, con la sua mole, i limiti liquidi dell'universo). E invece, oggi: splunf, ploch, tutto questo ben di Dio buttato via. Ognibene sprofonda nei suoi stessi rifiuti.

Certo, non la si direbbe una fine dignitosa. Eppure se Ognibene resta qui è per pura coerenza. Se tu hai dei principi, se tu hai dei valori - e quale valore più grande del territorio, per un ippopotamo? - non puoi decidere di averli soltanto nove mesi all'anno, quando ti fa più comodo. D'accordo, se egli sapesse essere più elastico nel praticare i suoi valori, avrebbe più possibilità di resistere. D'accordo, probabilmente sono gli ippopotami più elastici a salvarsi, non quelli più fedeli e coerenti alle proprie convinzioni. Ma francamente - pensa Ognibene - non vedo proprio che senso avrebbe vivere, senza qualcosa di sacro. Lascio volentieri sopravvivere chi ne sente l'esigenza. Io preferisco rimanere fedele a me stesso, ai miei valori.

(Approvano dall'alto gli avvoltoi. Finalmente qualcuno che ha valori).

Si scuote da una fantasticheria il gigante, per reimmergersi immediatamente nei suoi pensieri - e nel fango, senza riuscire per altro a coprirsi interamente. L'uccelletto scatta in volo per evitare d'infangarsi. Se solo si decidesse, questo pigro Dio. Forse ce la fa ancora ad alzarsi. Ma non gli do un altro sole. E sono già troppo buono. Ah, non so nemmeno perché sto qui a perdere il mio tempo. Questo qui morirà annegato nella sua merda. Non mi merita.


Ognibene, lo ascolti, il tuo ultimo devoto fedele? Ognibene è in dormiveglia; cerca forse di andarsene senza disturbare nessuno. Se gli riuscisse, tra un pigro pensiero e l'altro, di smettere di respirare senza volere, se per distrazione le narici aperte a fior d'acqua non scendessero un po', otturandosi di fango una volta per tutte... Forse, pensa lui, se mi perdo tra i ricordi...

– Ma se poi finalmente prende sonno, il suo primo sogno è il Grande. Un'ombra soltanto, in realtà, un'idea vaga di una perdita, la sensazione di una promessa fatta: e non aspettatevi qualcosa di più preciso, dai sogni di un ippopotamo.

Il Grande, dunque - ma forse soltanto quattro denti grigi, enormi, spaventosi, tra i quali il destro superiore è quello orribilmente scheggiato, chissà in quale battaglia con chissà quale malcapitato rivale. Più d'ogni cosa il Grande è terribile per quel dente anomalo, che Madre Natura non gli provvide affatto: se lo procurò lui, da solo, come trofeo d'odio e di potenza. (C'è mai stato un animale più perfido dell'ippopotamo? L'unico che attenti alla vita del suo simile...). Quel dente spaccato, acuminato, può aprire squarci fatali nella più robusta delle corazze: ma quel giorno memorabile Ognibene a dire il vero aveva ancora la scorza rosea e delicata di un ragazzino che ha appena abbandonato le madri per andare a cercarsi un territorio. E che, per un misto d'ignoranza e sbadataggine, non ha fatto caso a certi chiari confini segnati sulla spiaggetta sabbiosa della laguna (due monumentali escrementi neri): insomma, immaginate il giovane ippopotamo più sprovveduto al mondo ritagliarsi il suo spazio nel bel mezzo della giurisdizione del maschio dominante più grande e feroce. Su chi scommettereste?

Ognibene beatamente ignaro oziava, naso ed occhi a fior d'acqua, godendosi la sua prima giornata di maturità, quando vide emergere d'un tratto la bocca già spalancata pronta al combattimento: quella bocca enorme, vecchia, rugosa, la porta franata di una galleria infernale: quella bocca e quei denti che il nostro eroe sogna da allora ad ogni sonno inquieto.

Il tempo di un barrito, ed il piccolo è già in fuga sott'acqua, veloce come nemmeno lui si sarebbe sognato di nuotare. Il Grande, che non vuole averla subito vinta, lo insegue: ma perde distanza. Ognibene ha muscoli scattanti e adrenalina. Ma lo spavento lo ha fatto immergere senza quasi il tempo di prender fiato, e il Grande, vecchia volpe, questo lo sa. A Ognibene basterebbe alzare un poco il muso per succhiare a fior d'acqua tutta l'aria di cui ha bisogno: questo è quello che farebbe qualsiasi ippopotamo ragionevole. Ma Ognibene, inesperto e in preda al panico, non farà così, ed il Grande lo sa benissimo. Piuttosto, non appena la sua fuga disordinata non lo porterà vicino a riva, vorrà fermarsi e alzare il muso intero, per assicurarsi di essere salvo. Orbene, è lì che il Grande corre ad attendere il piccino per spaventarlo di nuovo a morte, emergendo dall'acqua all'improvviso con le fauci spalancate.

Ognibene ora è in trappola: il Grande lo ha chiuso contro la riva del fiume. Certo, la fuga e l'inseguimento potrebbero continuare in campo asciutto: ma lì la mole del Grande è persino più temibile. Del resto per un ippopotamo la fuga equivale alla resa: ma che può fare ancora chi si è già arreso incondizionatamente? Ognibene non lo sa, non ha nemmeno tutto questo tempo per riflettere: dopo tutto, è solo un ippopotamo. L'istinto, in questi casi, può tirare strani scherzi. Di nuovo di fronte ai quattro denti orribili, Ognibene di scatto abbassa il capo nell'acqua, in apparente segno di riverenza: ma poi immediatamente lo risolleva in alto, le mascelle spalancate a sprizzare ettolitri d'acqua sul muso del Grande. Che affronto!

Il nostro eroe forse non lo sa (egli del resto non ha fatto che ripetere d'istinto la mossa di tante allegre battaglie vinte coi cugini all'asilo), ma ha commesso un atto di straordinaria impudenza. Spruzzare acqua sul muso dell'avversario, equivale, nella retorica marziale degli ippopotami, a una dimostrazione di potenza, al più teatrale dei segni di sfida. (Esiste forse in natura un animale più civile dell'ippopotamo, che combatte le sue guerre con la retorica, e non con la violenza? Ma d'altro canto, vi è al mondo una creatura più ipocrita di questa, che nasconde dietro gesti rituali il proprio istintivo odio verso il prossimo?) Il Grande, che forse in gioventù ha sfigurato dei rivali per molto meno, rimane interdetto. Sono anni che nessuno osa più spruzzarlo. Di solito tutto quello che deve fare è mostrare un po' i denti, e tutti scappano. Certo, ogni tanto si trova l'imbecille che è convinto di essere il più forte, insomma il classico attaccabrighe a caccia di cicatrici: e il Grande li incontra sempre volentieri questi qui, è sempre felice di poterli accontentare. Sì, perché la crosta dell'ippopotamo si rimargina in fretta, ma il segno dello sfregio resta: e un paio di segni è quello che ci vuole per crescere un po', sanguini per un paio di giorni ed intanto impari alcune cose, metti giudizio, insomma. È questo ciò che vuole il giovane Ognibene? Il Grande esita, strano per lui. Ognibene ha ricacciato il muso giù, nell'acqua, imbarazzato. Mamma mia l'ho fatta grossa, penserà. Il Grande lo guarda a bocca chiusa.

Perché ti risparmiò, Ognibene? Perché ti lasciò andare, senza neppure lasciarti un segno? Certo suona assurdo interrogarsi sui pensieri di un ippopotamo. Blasfemo, anche. Eppure: cosa gli passò per la testa in quel momento? Forse valutò che, per farti pagare l'affronto occorreva dissanguarti, magari ucciderti, e quel pomeriggio non aveva voglia? Forse non ti considerò nemmeno, pensò che trionfare su uno sfidante così inetto era un'infamia. O magari ti prese in simpatia per quel gesto folle, riconoscendo nella tua sfacciataggine quella delle sue prime batoste... Più probabilmente ti riconobbe per un bambino allontanatosi per sbaglio dall'asilo, le cui spruzzate non vanno prese sul serio perché si sa come sono i bambini. Fatto sta che rinunciò. Diede un grugnito, a bocca chiusa, e ti voltò le spalle. Bastò il grugnito a farti scappar via, a terra.

Questo, Ognibene, il tuo primo, fallimentare debutto in società. Oltre la laguna, sul greto del fiume, le mamme del tuo asilo ti riaccolsero come se nulla fosse successo. (Vi è in natura creatura più amorevole dell'ippopotamo, vi è una madre più generosa di quella che assiste a turno a tutti i cuccioli, e li riaccoglie tra sé quando essi, delusi dalla vita adulta, vogliono tornare?) Soltanto il Grande era stato testimone del tuo fallimento. Il Grande? Se tutti gli adulti erano come lui, tu potevi ben dire addio alla speranza di crescere mai...

– Invece crebbe, Ognibene: non ci mise un giorno e nemmeno una stagione; ci vollero altre prove, ed altri fallimenti, ma alla fine crebbe. Chi l'avrebbe immaginato, eppure succede a molti. Venne il giorno della vittoria, il giorno in cui altri chinarono il capo davanti a lui, e - ci credereste? Ognibene, che tanto aveva sognato quel giorno, disperando che arrivasse mai, ora non ci trovò nulla di particolare: lo considerò una cosa ovvia, una cosa dovuta. Ora era un maschio dominante, e i maschi dominanti hanno sempre la meglio, non c'è nemmeno da gloriarsene. Così, di lì a pochi anni, Ognibene divenne un protagonista. Le femmine lo cercavano volentieri, perché lui era socievole e generoso quanto bastava, e gli altri maschi si tenevano ad una rispettosa distanza. Prima che tornasse per la ventesima volta la stagione arida, Ognibene era già uno dei padri più richiesti e prolifici, e portava sulla pelle i segni del suo coraggio: proprio in quel periodo trovò anche modo, in una rissa, di scheggiarsi un dente. Sempre in quell'estate gli capitò, per la seconda ed ultima volta, d'incontrare il Grande.

Non saprei dirvi se lo riconobbe - del resto ora il più grande era lui. Inoltre era notte - luna piena - ora di pascolo, e l'istinto portava il nostro eroe affamato su sentieri nuovi, eppure in un qualche modo familiari. C'era odore di rivale in giro, ma Ognibene era tranquillo: la zona era piena di germogli. Dove passa un ippopotamo, non può esserci tanta abbondanza: allora, o il rivale è ammalato, o è morto addirittura. In ogni caso che si facesse vivo lui, se ci teneva: Ognibene non aveva paura di nessuno.

Non aveva tutti i torti. La stagione arida è sempre il momento critico, per gli ippopotami: gli specchi d'acqua si contraggono in polle di fango, e la maggior parte degli inquilini delle lagune scendono al fiume: là in pochi metri si addensano decine di ippopotami, e sono naturalmente risse a non finire. Poco cibo, poca acqua, nervi tesi: se passi l'estate hai passato il peggio. Ma accade a volte che alcuni tra i maschi dominanti rifiutino la promiscuità del fiume. Si sa, quando non fai che pensare al territorio, questo comincia a diventare un'ossessione. Così, talvolta, il territorio finisce per farti da tomba, quando al culmine della stagione il fango si asciuga fino a chiuderti in una morsa di creta secca.

Ognibene probabilmente non rammentò che il sentiero, sul quale un curioso istinto lo guidava, era quello percorso con trepidazione anni prima, nella prima libera uscita della giovinezza. E che la laguna, niente più di una polla di fango ora, era stato il teatro della sua prima battaglia. Fu lì, alla luce della luna che Ognibene lo vide: un vecchio conservatore prigioniero della sua testardaggine. Le crepe della sua corazza si confondevano con le screpolature dell'argilla. Cercò in un qualche modo di comunicare con lui? Provò ad aiutarlo, a dissuaderlo dall'assurdità del suo gesto? Anche se ne fosse stato in un qualche modo capace, Ognibene era arrivato troppo tardi. Non trovò di meglio che rimanere lì, perplesso, a vedere come se ne va un Grande. (Vi è al modo creatura più pietosa dell'ippopotamo, che veglia sulla sofferenza e sulla morte dei suoi simili?) Forse fu là in tempo per vederlo chiudere gli occhi: in ogni caso arrivò prima dei coccodrilli.

Ne passò un paio, mezz'ora dopo: gente coriacea, messasi in viaggio apposta dal fiume per quel salsicciotto cotto alla creta. Del resto bisogna capirli, l'Estate è dura per tutti.

Ognibene ha sempre odiato i coccodrilli: il suo più grande spavento di bambino fu il giorno che un finto tronco galleggiante, rasente la riva, non sollevò all'improvviso due spaventose tenaglie a pochi metri dal cucciolo: non fosse stato per sua madre, sempre all'erta, le avventure di Ognibene Ippopotamo sarebbero terminate lì. Ecco cosa le aveva insegnato d'importante sua madre buonanima: tutti temono i coccodrilli, ma i coccodrilli temono gli ippopotami. Quando vide che ringhiare a bocca aperta non li teneva lontani, Ognibene partì alla carica. Senza darci troppo dentro, o li avrebbe raggiunti: mentre invece il suo scopo era semplicemente allontanarli. Andò avanti per quasi duecento metri, poi li perse di vista e tornò indietro: c'era il rischio che quei rettili lo avessero aggirato. E poi...

(Si era appena voltato verso la tomba del Grande, quando udì il primo latrato). Ecco, arrivavano le iene.

I coccodrilli, le iene, e prima dell'alba sarebbero arrivati anche alcuni avvoltoi: ma a quell'ora Ognibene aveva già abbandonato la sua veglia funebre, distrutto. I coccodrilli li avrebbe sempre tenuti lontani, ma le iene sono terribili, col loro maledetto gioco di squadra. Prima o poi Ognibene era dovuto cascare in un loro tranello, depistato da una iena mentre l'altra affondava i canini nella schiena del Grande. Poi, non c'era stato più nulla da fare: gli spazzini, confortati dal successo e allettati dall'odore del sangue, erano tornati all'attacco ancora e ancora. Alla fine il branco era talmente numeroso che Ognibene fu praticamente ridotto alla fuga. Tornando nello stesso luogo, la sera successiva, vide le costole del Grande emergere dall'argilla; le iene se ne erano andate, mentre alcuni coccodrilli stazionavano: li mise in rotta. La notte seguente andò allo stesso modo. La quarta notte Ognibene non trovò nessuno: brucò erba e germogli tutt'intorno, e si chiese cosa ci faceva lì: non era suo territorio, e non era nemmeno un posto particolarmente felice.

Tre notti dopo scese la prima pioggia, improvvisa e tanto attesa. Dalle parti del Grande si rifecero vivi gli spazzini: cercavano altri resti della carcassa sotto l'argilla. Ognibene non li degnò d'uno sguardo. Passava di lì spesso, tutto sommato il posto gli piaceva; forse gli ricordava qualcosa (Cosa?) Col tempo, finì per eleggere la laguna (ora una vasta e dolce laguna, feconda di piante acquatiche e pesci) a capitale del suo territorio. Vi è forse creatura più felice dell'ippopotamo nella stagione delle piogge? La Natura lo ha provvisto di tutto, e nessun altro animale osa averlo per nemico. Soddisfatto della sua nuova e, il giovane ippopotamo dimenticò il Grande (solo i suoi denti orribili tornavano a visitarlo ad ogni sogno inquieto): o meglio, dimenticò che il Grande fosse mai stato qualcun altro se non lui.

– Perciò, nell'ultima tua stagione arida, Ognibene, quando da tempo la tua mole e i tuoi canini dominano incontrastati (ma le femmine negli ultimi anni, non gradendo il tuo pessimo umore, ti hanno decisamente emarginato), non ti resta che recitare la tua fine ingloriosa e coerente, nella morsa fangosa delle tue convinzioni. È un copione che già sai, anche se non ricordi il padre da cui l'hai appreso: ma in questa vita è il tuo copione. È già notte, notte di luna piena sull'altipiano: l'ultimo uccello nero ti ha lasciato da un pezzo. Difficile per un ippopotamo dormire di notte: e gli strilli di questi avvoltoi poi, sono una tale noia... forse con una buona spinta ce la faresti ancora a sollevarti; sei molto più forte di quanto non si creda; e fuori di lì c'è ancora qualcosa da brucare: nessuno può darti noia, tu sei il Grande. Ma il fatto è che non vuoi.
Ora, che male c'è in fondo se un ippopotamo preferisce morire, per coerenza, o pigrizia, o qualsiasi altro motivo? Esso è sempre un dono: da vivo mantiene pesci e uccelli, da morto satolla coccodrilli e iene. Se non lo molesti non ti darà fastidio: e nessuno lo molesta, gli stessi leoni e le pantere se ne guardano bene. La natura gli ha dato tutto. Chi non ha avversari degni, deve saper decidere la sua fine da solo. E così Ognibene: il più potente, il più grande, la prima delle opere di Dio.



******* FINE DELLE 21 NOTTI *******

Grazie per la pazienza

martedì 30 agosto 2011

La strage alla sagra d'Autunno

(2000)
Lo lasci dire a me che lo conoscevo, brigadiere: Fischio non era un tipo cattivo.

Sì. Faceva il deejay. Che vuol dire, è un mestiere come un altro: peggio di tanti altri, coi tempi che corrono. La fiera d’Autunno del 2015 finiva quella sera; cominciava a far fresco. Tra un po’ la gente avrebbe cominciato a passare le serate nei locali al chiuso, ma quell’anno Fischio non aveva nessun contratto con nessun locale. Insomma era l’ultima volta che metteva su i suoi dischi, e a nessuno gliene fregava niente. Nello Stand Giovani della fiera ci saranno state una ventina di persone si e no.

32, dice lei?

Ah, lo dice il comunicato ufficiale.

Non so, forse qualcuno da fuori ha sentito il casino e ha cercato di intervenire. Cosa crede, non si sono mica tutti arresi senza combattere… io? io quando ho visto che perdevo sangue dalla testa mi sono gettato a terra, ho fatto il morto. Lei cos’avrebbe fatto? Erano cinque a uno, Brigadiere.

No, no, mi stia a sentire, non ci fu nessuna provocazione. O meglio. Io penso che sia stato un errore mettere lo Stand Giovani così vicino allo Spazio Ricreativo Terza Età. Quelli hanno un sacco di soldi e fanno il pienone tutte le sere – ma soprattutto hanno un sound system, mi permetta, della madonna. Fischio doveva portare le casse sue da casa, e poteva anche averci della roba buona, ma senz’altro era il liscio romagnolo a sovrastare la techno, non il contrario. Quel maledetto tre quarti tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… faceva uscire di testa. Già si era in pochi, e sempre gli stessi, come si faceva a farsi venire voglia di ballare? Venivamo solo per fare piacere a Fischio.

Brigadiere, non mi guardi così, lei mi crede fatto o chissà che, ma è solo stanchezza. Io dopo i funerali ieri sono andato al lavoro, cosa crede?

Sì il turno di notte. In casa di riposo, naturalmente. È un interinale. La settimana scorsa facevo la vendemmia, la sera si e no mi tenevo in piedi, secondo lei mi ci sarei buttato di mia volontà in un casino così? Senta, ho 28 anni, due lauree brevi e un diploma di specializzazione. L’altro giorno ho fatto il calcolo e ho scoperto che andrò in pensione a centovent’anni. Non è male, guardi, conosco sì, , certo, se la speranza attuale di vita è 135… Ma lei, mi permetta, brigadiere, quanti ne ha? Ottantasei? E ci va l’anno prossimo? Ah, però.

Io me la vedo male, Brigadiere, sa? A casa mi devo nascondere. Mio padre non mi vuol vedere, mio nonno mi disprezza, e la bisnonna mi chiama a voce alta dalle scale: fannullone, parassita, bamboccione. E cosa ci posso fare? Tra due anni ci sarà il concorso, e con un po’ di fortuna finirò in graduatoria, diciamo tra i primi duecento: altri dieci anni e mi sistemo. Un bilocale con la mia ragazza… chi lo sa, magari un figlio… Ma nel frattempo debbo vivere coi miei, non c’è rimedio…

…mi chiede questo cosa c’entra… beh, Fischio era nella mia stessa situazione… o peggio. Vivere coi genitori (e i nonni) per un deejay è una vera umiliazione… tutto il giorno, sentirti interrompere da una voce che ti dice tesoro, per favore abbassa il volume, stiamo cercando di vedere la milleseicentesima puntata di cuorinfranti o chennesò… esasperante… e so per certo che la settimana scorsa la ragazza lo aveva mollato: è andata a vivere con un sessantenne del ramo import-export, un tipo sportivo… uno col porsche coupé, ha presente… Fischio, per dire, era uno che si faceva prestare l’apecar del nonno, che a trasportare l’impianto gli servivano due giri…

No, apparentemente non l’aveva presa male, però chi lo sa, magari dentro ci moriva. Sono cose difficili da sopportare, alla nostra età… Per di più dal giorno dopo sarebbe stato ufficialmente disoccupato. Brigadiere! per un disoccupato alla nostra età non c’è speranza, non c’è sussidio! Sì, sì d’accordo, se al posto della patente da tecnico del suono avesse preso, per dire, quella da conducente di carrozzine, il lavoro non gli sarebbe mancato: ma i giovani devono seguire i propri interessi, non è quello che si dice sempre a scuola?

E poi i giovani devono divertirsi finché hanno il tempo. Si sente dire anche questa. E io faccio il possibile per divertirmi, per esempio l’altra sera mi sono sforzato di uscire per andare a sentire il mio amico Fischio deejay. Anche se lo sapevo già che lo Stand era un mortorio, mi perdoni la battuta orribile. Le solite facce arrabbiate – no, neanche arrabbiate: stanche. Tante smorfie non erano che sbadigli repressi.

E a pochi metri da noi, quei vecchi – pardon – quegli anziani scatenati, in centinaia a strusciarsi senza ritegno con le loro polche e le loro mazurche, tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… tra cent’anni vivranno ancora e ascolteranno ancora la stessa musica, mi diceva sempre Fischio. Non si schiodano. Certo, per quel che devono fare domattina, diceva ancora… svegliarsi a mezzogiorno e andare a tirare la pensione…

Brigadiere, era l’ultimo pezzo della serata. Era l’ultima serata della fiera. Era la Sagra d’Autunno. Può anche darsi che Fischio abbia alzato un po’ il volume, può anche darsi che lo abbia tirato un po’ in lungo, e allora? Ricordo che ho dato un’occhiata al mio orologio ed era un quarto dopo mezzanotte. Ma lo sa che neanche dieci anni fa nello Stand Giovani si ballava fino alle tre? Me lo racconta sempre mio fratello più grande… ma è vero che a quel tempo eravamo più forti, più organizzati…

Insomma quand’è arrivato quel tappetto, come si chiama, Prosperi Alcide, non ci volevamo credere. Senza dire beo questo tizio, avrà avuto un’ottantina d’anni, si mette davanti alla consolle di Fischio e gli stacca la spina.

Silenzio, di colpo – silenzio per modo di dire, perché in realtà si sentiva un Ump ta ta ump ta ta incessante. E poi la voce stridula dell’Alcide si mette a rovesciare insulti su Fischio, sul tono di: drogato di merda, hai visto che ora è? va a lavorare, non ti vergogni, sei la disgrazia di tua madre e tua nonna.

Brigadiere è vero, a quel punto Fischio l’ha toccato.

Può persino darsi che lo abbia spintonato un po’. Ma è stato il gesto di un attimo, e poi il Prosperi lo abbiamo aiutato in tre a rimettersi in piedi, e ci siamo assicurati che stesse bene prima di lasciarlo andar via.

Ecco, brigadiere, il fatto – la provocazione, come dice lei – è tutta qui. Chi se lo immaginava che il Prosperi se ne sarebbe tornato di lì a cinque minuti, con un po’ di amici suoi, un’ottantina? Tutti armati di stampelle e cagnole? Dai settantenni ai centenari c’erano tutti i signori dello Spazio Ricreativo Terza Età, e secondo me si erano messi d’accordo prima. Io ho visto anche volare delle bocce, brigadiere, in particolare ne ho vista una che aveva preso la mia testa per il boccino. Venivano da tutte le parti, eravamo circondati. L’ultima cosa che ho visto è stata Fischio cadere sotto i colpi mentre cercava di difendere le casse, che erano proprio sue, se le portava da casa. Poi ho chiuso gli occhi e non ho più voluto veder niente. Ma non potevo fare a meno di sentire quel maledetto Ump ta ta, Ump ta ta, che scandisce i tre quarti in eterno.

*******


"Toh, professore", commentò l'algida Verola, "sei tornato al tuo cavallo di battaglia: le stragi! Ammetto tuttavia che non mi piacciono più come un tempo; i miei gusti variano evidentemente secondo il capriccio della stagione".
"Mia signora, anche stavolta ho fatto quel che ho potuto. Se vuole eliminarmi, non ho nessuna obiezione, tanto più che avverto sempre più un certo languore nel basso v..."
"Elimina piuttosto me, mia signora", lo interruppe allora don Tinto. "Ho tremiti e sudori freddi ed è comunque più prudente per voi due privarvi della mia presenza".
"E dove andresti, pretonzolo? Giù dabbasso a evangelizzare i lupi? Resta qui, non c'è più uscita".
"Mia signora, ho dunque vinto?"
"Se la cosa ti fa star meglio".
"Molto meglio, mia Signora", rispose don Tinto, e sorridendo spirò.




******* FINE DEL QUINTO TURNO *******




"L'abbiamo fregato", disse allora Verola al professore, "in realtà hai vinto tu".
"Non ci contavo. E adesso?"
"E adesso prova a immaginare. Ce la fai a spostare Don Tinto almeno in corridoio? Mi snerva tenermi un cadavere nell'alcova".
"Mia signora no, mi spiace, le forze mi mancano".
"Va bene, cerchiamo almeno di farlo cadere giù... ecco. Uff! Povero prete. Alla fine non ho mica capito se credeva in Dio o no".
"Credo che non si ponesse più il problema da un pezzo".
"E tu, professore?"
"Io cosa?"
"Tu Dio come lo immagini?"
"Mia signora, a questo punto più che sforzarsi di immaginare, non ci resta che avere un po' di pazienza".
"La pazienza, già. Non è tra le mie virtù".
"Lo so, mia signora".
"Ma credo di poter aspettare dignitosamente ancora un poco, se mi racconti un'ultima storia".
"Un'altra storia?"
"Siccome hai vinto la competizione, me la devi".
"Non ho più storie, mia Signora".
"Fingi d'essere Don Tinto. Raccontamene una delle sue, una storia su Dio".

Karma 740

(2011)

“Quindi adesso a chi tocca? Tortora, Trani, Turoldo...”
“Mi scusi, io sono Tinto”.
“Tinto, mi lasci guardare, Tinto... avevamo appuntamento un'ora fa”.
“Sì, ecco, io... ero uscito a... a prendere una boccata d'aria, perché qui... non si respira, davvero, stavo per svenire”.
“Vabene vabene vabene, se Tortora accetta di aspettare... Ma c'è Tortora?”
“Credo sia il signore che è svenuto davvero, lo hanno portato via poco fa”.
“Meglio così. Si accomodi”.
“Certo che fa caldo qui”.
“Non me lo dica, non me lo dica. Ha con sé i documenti? Codice fiscale?”
“TNTDVD73H11HGKJFG fjhkjh lk jj dij fsaokekelleterre678”
“Codice Ibann?”
“OT709834750943446'549'65987'98'97987098760980989809483098043085094860594ì743'097ì063898u'9'29046895i6498690509ì'098098098'0ì0000000000000000000459384790578'60589890'0”
“Numero di Carta di Credito?”
“76896”.
“Pin della Carta di Credito?”
“...”
“Ahahah, stavo scherzando, ci stava per cascare eh?”
“Quanti abboccano?”
“Sempre meno, ma ne vale comunque la pena. Codice meccanografico?”
“Domodossola Livorno Cagliari Domodossola Domodossola Domodossola Pisa Milano Empoli Domodossola Domodossola Arezzo Frosinone Gaeta Domodossola Domodossola Belluno Klagenfurt Novi Ligure Piazza Al Serchio Altolà Madonna dell'Oppio...”
“Basta così. Peccati da dichiarare?”
“Mah, le solite cose: non ho santificato le feste, non ho meritato la fiducia dei miei assistiti, non ho ricambiato l'affetto inesauribile dei miei genitori, ho tradito la mia vocazione in miliardi di minuscoli modi e poi...”
“Sì, sì, ma ha portato le notule?”
“Ha ragione, mi scusi, è il caldo. Dunque... qui c'è una vecchia notifica di violazione del terzo comandamento”.
“Questo al massimo sarebbe il sesto comandamento. Lei ha commesso atti impuri”.
“Atti impuri? Io? Ma se non mi ricordo nemmeno come...”
“Sullo scontrino c'è scritto 2004”.
“Aaaaah, sì, il 2004, fu un estate difficile, poi mi ero totalmente dimenticato e...”
“La gente come lei mi fa uscire di matto”.
“Mi scusi”.
“Cioè, ha idea di che mora le faranno pagare per un minuscolo atto impuro del 2004?”
“Non ho idea, davvero”.
“Ma la gente non potrebbe essere più attenta? Dico, cosa ci vuole? Commette un peccato, le rilasciano la ricevuta, lei appena a casa la archivia in un cassetto... ma è chiedere troppo?”
“Io non so gli altri, ma io... forse non ho abbastanza cassetti in casa”.
“È quel che dicono tutti. Sa cosa le rispondo io? Balle. Siete tutti convinti di avere miliardi di peccati da dichiarare”.
“In effetti...”
“Quando alla fine sono le solite due o tre cose tutti gli anni, sa cos'è questa? Superbia. Settimo vizio capitale. La paga lei l'aliquota sul settimo vizio capitale?”
“Di solito no”.
“Forse sarebbe il caso”.
“Se lo dice lei”.
“Vabene vabene. Ha delle esenzioni?”
“Un bonifico per l'onlus ex bambini ciechi...”
“Buono”.
“E poi un contributo al canile municipale”.
“Questo non lo passiamo, mi dispiace”.
“Ma pensavo di fare del bene”.
“Noi contiamo solo il bene che si fa agli esseri umani. No cani. Tutti gli anni ve la spiego, questa cosa”.
“Ma non è giusto. Secondo me...”
“Senta, è inutile che mi spieghi l'universo secondo lei. Io sono solo quello che riempie i moduli, lo vede?”
“Mi dispiace. È che con questo caldo...”
“Non lo dica a me. Non lo dica a me. È tutto? Sicuro di non aver fatto nient'altro di buono?”
“Mi sono fermato spesso nel mio luogo di lavoro, dopo l'orario”.
“Quella non è bontà, è lavoro in nero”.
“Ma non per i soldi... l'ho fatto per risolvere dei problemi di cui mi sarei potuto fregare, invece sono rimasto lì, ho aiutato i miei colleghi, credo di aver fatto del bene...”
“Lei si crede importante e insostituibile. È convinto che senza di lei i suoi colleghi non sappiano risolvere un problema. Direi che a questo punto l'aliquota sulla superbia scatta automatica”.
“Ma avevo le migliori intenzioni...”
“Sì, sì, dite tutti così. Che caldo, Signore...”.
“È difficile fare del bene”.
“La cosa più difficile al mondo. Dunque, è tutto?”
“Tutto, sì”.
“Molto bene, allora, lei deve all'Ufficio del Giudizio trentacinque punti karma”.
“Così tanti?”
“Eh, arriva con una pendenza del 2004, cosa pretende?”
“Ma trentacinque punti... cosa mi aspetta?”
“Dunque, mi faccia vedere... noi abbiamo già cominciato a farle i perdere i capelli, direi da tre anni...”
“Da due”.
“Sì, beh, però a questo punto dobbiamo recuperare un'altra decina di punti, non resta che accelerare il passaggio alla calvizie completa”.
“La prego, mi lasci ancora stempiato per un anno. Non voglio diventare come quei quarantenni che si rasano”.
“Eh, la fa facile lei. Dove li prendiamo trentacinque punti? Col fegato come sta messo?
“È un po' grasso”.
“Senta, mi sembra di ricordare che qualche anno fa le avevamo assegnato una dermatite rara”.
“Atipica. Poi c'è stato il condono”.
“Ecco, ricominciamo progressivamente con la dermatite atipica, e dieci punti li abbiamo fatti fuori. Poi, visto che si sente così giovanile, che ne dice di una bella forfora?”
“Forfora?”
“In dodici mesi ci recupera cinque punti, che ne pensa?”
-Sigh- Vada per la forfora”.
“E poi ci sono i denti”.
“La prego, i denti no”.
“Senta, allora me lo dica lei da dove prendere altri venti punti. La colecisti ce l'ha?”
“Me l'avete presa due anni fa. Però ho ancora l'appendice”.
“L'appendice, che tenerezza. Non conta nulla l'appendice, come i denti del giudizio. Qui ci vuole una bella carie, glielo dico subito, una capsula in un molare”.
“Li ho finiti”.
“Va bene, mi dica lei cosa vuole! Calcoli renali? Alitosi? Paranoia? Faccia lei. Abbiamo una ventina di punti da recuperare”.
“Non è possibile una dilazione?”
“Un modo c'è. È un pacchetto lancio che stiamo offrendo negli ultimi tempi. Non paghi nulla per cinque anni”.
“E poi?”
“Ischemia cerebrale, invalidità semipermanente”.
“No, non credo che sia il caso, no. Non... non potrebbe aumentarmi la forfora?”
“Più di così? Magari vorrebbe anche qualche brufoletto?”
“Eh”.
“Senta, bisogna che se ne faccia una ragione. Lei va per i quaranta. Questo non è l'ufficio della fatina del dentino, questo è l'ufficio della dichiarazione dei peccati. L'acne giovanile dei suoi diciottanni non tornerà più".
"Mai più"..
"Al massimo se vuole un herpes”.
“No, non è proprio la stessa cosa”.
“Va bene, sa cosa le dico? Alziamo il livello di tolleranza alimentare”.
“Ma l'abbiamo già alzato l'anno scorso, ormai non mangio più latticini...”
“Perfetto, da qui in poi astensione completa”.
“Quanti punti karma fa?”
“Sette”.
“Auff”.
“Lei è miope? Potremmo abbassare le diottrie”.
“La forfora, l'intolleranza alimentare, gli occhiali più spessi...”
“Senta, noi qui riempiamo solo i moduli con i dati che ci portate voi. È colpa nostra se lei fa oggettivamente una vita di merda?”
“Con tutti gli stronzi che si vedono in giro”.
“Niente turpiloquio”.
“Coi loro denti bianchi, la loro pressione sanguigna nella norma, i loro capelli folti...”
“Senta, è il karma. Ognuno ha il suo. Non deve guardare agli altri. Ognuno se la vede col suo proprio destino”.
“E tutti gli evasori dove li mettiamo?”
“Si reincarneranno in commercialisti. Ma lei deve preoccuparsi di sé. Senta. Un po' di reumatismi?”
“Reumatismi? Mai avuti”.
“Ecco, vede? Un'esperienza nuova”.
“Ma sono dolorosi”.
“Un po' fastidiosi, ma poi ci si affeziona. È come un sesto senso, sentirà la bassa pressione, l'anticiclone delle Azzorre”.
“E vada per i reumatismi”.
“Così la voglio. Positivo e propositivo. Mancano ancora cinque punti. Si sbizzarrisca”.
“Non so...”
“Una disfunzione erettile!”
“Ma no... Senta, la tristezza conta?”
“La tristezza... nel senso di malinconia, no”.
“Maledizione”.
“Invece nel senso di crisi depressiva, beh, di punti ne facciamo otto”.
“Ho sforato?”
“Sì, ma li recupera sulla dichiarazione dell'anno prossimo, non si preoccupi. Allora stampo?”
“Stampi, stampi”.
“Vuole lasciare l'otto per mille allo Stato Italiano?”
“No, ai Paesi Bassi”.
“Ecco qui. Una firma sul modulo...”
“Aspetti, aspetti un attimo. Mi stavo dimenticando...”
“Ecco, lo sapevo. La buona azione che vi viene in mente all'ultimo momento. Dio quanto vi odio”.
“Io... ho regalato un ombrello a un'anziana signora, tre mesi fa. Conta?”
“Eh, dipende. Stava piovendo?”
“Un acquazzone improvviso, lei non riusciva ad andare avanti, e così io...”
“Si è fatto fare la ricevuta?”
“Sì, ma credo di averla a casa. Mi scusi...”
“Non è possibile”.
“Mi scusi davvero, io... a volte mi dimentico delle cose buone che faccio”.
“Ma è rimasto seduto lì davanti per tre ore. Non poteva farselo venire in mente prima?”.
“È che non riesco a pensare qui dentro. Fa caldo”.
“Lo dice a me?”
“Non si respira. Sembra di stare nell'anticamera dell'inferno”.
“Sembra?”

FINE

*******


"Se non altro stasera l'hai fatta breve", commentò la triste Verola. "Ma davvero mi domando com'è stato possibile ritrovarmi in finale un pretonzolo come te.
"Signora", replicò Don Tinto, ha avuto una ventina di giorni per eliminarmi. Se non c'è riuscita deve biasimare soltanto sé stessa. Peraltro, non è che io abbia mai desiderato di restare l'ultimo uomo sulla terra".
"Non siamo gli ultimi uomini sulla terra", obiettò il prof. Esso. "Non è che se manca la rete, nessun cellulare prende più campo, e non si captano più emittenti nemmeno a onde lunghe, uno deve per forza dedurre che l'umanità si sia estinta".
"Inutile discuterne", tagliò corto Verola, che doveva andare in bagno. "Cerchiamo almeno noi di finire quello che avevamo iniziato, come conviene agli umani, anche ove fossimo gli ultimi. Professore, hai già pronto il tuo racconto?"
"Certo, mia signora, l'ho scritto nella veglia di ieri".
"Allora me lo racconterai più tardi stanotte, nell'ora in cui nella vallata i lupi ululano la loro indigestione di carne frolla, impedendoci di dormire".

lunedì 29 agosto 2011

In bagno coi Maestri

(2010)
C'è da dire che la sessualità è un mistero – la nostra: figurati quella degli altri. Ognuno ha la sua storia e non ve la viene certo a dire. D'altro canto a chi interesserebbe. (A Kinsey interessava, ma gli sospesero i finanziamenti).
Del resto, giudicate voi. Per tutti i lunghi anni del seminario e dell'università, mai Don Tinto si era masturbato o ne aveva anche solo sentito l'urgenza. In questa che a voi lettori potrà sembrare una bizzarria statistica (ma quale statistica? ne esistono di attendibili?) e che i suoi coetanei avrebbero ritenuto una grave menomazione, sin dalla prima pubertà Don Tinto aveva creduto di scorgere un dono del Signore, un segno evidente della Sua chiamata. Pur sensibile alla bellezza dei corpi (anzi all'università aveva optato per l'indirizzo storico-artistico), Don Tinto sembrava riuscire a goderne a distanza, senza cadere nei turbamenti delle passioni carnali. Sporadicamente, è vero, in qualche sogno sperimentava un'estasi, una specie di trasporto – di cui al risveglio la biancheria recava tracce imbarazzanti. A sedici anni il confessore gli aveva spiegato di che si trattava, del retaggio dell'inevitabile debolezza della carne – ma non era peccato, tecnicamente. Non nella fase onirica. A meno che non avesse sognato... angeli? Vestiti? Maschi? Femmine? Proprio non riesci a rammentare, figliolo?

“Padre, non mi prenda in giro, ma...”
“Ci mancherebbe altro”.
“Mi sembrava di stare nell'assunzione del Correggio”.
“Un quadro, insomma”.
“Un affresco del Cinquecento. La basilica di Parma”.
“Ah, quindi angeli nudi, insomma".
"Con molti panneggi".
"Bene. Bambini?"
"Eh?"
"Gli angeli del sogno, sono bambini?"
"No, direi adulti".
“Meglio ancora. Tre rosari alla Madonna della Neve”.
“Quindi ho peccato, Padre!”
“No. Però un rosario non può far male. Vai, figliolo, e non... non sognare troppo, eh?”

Centocinquantemilatrecentosettantadue rosari più tardi, Don Tinto (ora cappellano di buone speranze, in una grande parrocchia metropolitana) ebbe finalmente qualcosa di piccante da confessare al suo padre sprirituale.C'era una ragazza castana di dodici anni, nel coro, che non lo faceva dormire. Era forse il modo sfrontato e insieme dolcissimo con cui attaccava gli acuti. Don Tinto era stravolto. Non riusciva a pensare che a lei. Non che ci fosse molto da pensare; allora diciamo che non riusciva a pensare ad altro che non fosse il suo non riuscire a pensare che a lei, e chissà, forse in queste vertigini consiste l'amore? La pubertà, come si vede, stava arrivando in ritardo, tram sferragliante che rischiava di travolgerlo. Mai avrebbe toccato la fanciulla, mai, anche solo presa sottobraccio, o afferrata alle spalle per salvarla da uno strapiombo come gli era capitato una volta di sognare, ma quindi come avrebbe potuto accompagnarla nel pellegrinaggio a Roma con la classe dei cresimandi? Mentre ascoltava, il confessore censurò in sé stesso una certa torva soddisfazione. Il fatto è che se lo aspettava. Tutti quei sogni di apoteosi angeliche da qualche parte dovevano pure andare a parare, bastava aver letto Freud – e poi la carne è debole, Cristo Santo, anche quella dei vitelli da latte come Don Tinto. Fu brusco con lui, come si faceva ai vecchi tempi:
“Ti tocchi?”
“Eh?”
“Ti sto chiedendo se ti masturbi, figliolo”.
“Ma no, padre”.
“Allora forse è meglio cominciare”.
“Ma padre!”
“Che padre e padre. Senti un po'. Tu sei convinto di essere sul precipizio di chissà quale perdizione. E mi sta bene. Significa che dai ancora molto peso ai tuoi sentimenti”.
“Ma...”
“Io però ho sessant'anni ormai, confesso i seminaristi da trenta, e non hai idea di quante storie del genere ho già sentito. Per cui scusami se taglierò corto. Quanti anni hai?”
“Ventiquattro”.
“È tempo che cominci a masturbarti con regolarità”.
“Ma...”
“La sera dei giorni dispari, dopo compieta. Salta la domenica. Vedrai che i sogni poi si calmano”.
“Ma io...”
“Non sai come si fa. Eh, beh, certo. Dio mio, tutto ti devo spiegare? Con la mano destra...”
“Padre, la meccanica più o meno la conosco”.
“Oh, meno male”.
“Ma non mi viene niente da pensare...”
“Hm. Dormi ancora in San Filippo, no? Hai accesso alla biblioteca di Don Bruno?”
“Padre, sì”.
“La pornografia è nel terzo stipetto a destra, la chiave è nel trofeo della corale del 1974. E adesso va'”.
“Padre, non mi assolve?”
“Peccati non ne hai fatti, per adesso. Adesso dovrai cominciare a farne di molto piccoli, con regolarità, in modo da evitare quelli grandi. Se tutto va bene arrivi alla mia età senza avere niente di veramente brutto di cui pentirti”.
“Speravo che non sarebbe mai successo”.
“Ma certo, perché avresti dovuto avere un corpo, come noialtri? Dei desideri? Un pisello, addirittura? Perché mai Nostro Signore avrebbe dovuto farti uomo come noi? Non avrebbe potuto farti angelo? Ecco il tuo vero peccato. Sai qual è".
“La superbia, Padre”.
“Ascolta. Per quanto ne so, tu sei un bravo ragazzo. Non toccheresti una bambina neppure se ti costringessero. Il solo fatto che tu sia venuto a raccontarmi questa storia... però potrei sbagliarmi. Mi sono sbagliato altre volte”.
“Sbagliato?”
“Su altre persone. Ma devi sapere una cosa. Mettiamo che un giorno ti succeda. Mettiamo che un giorno ti capiti veramente di toccare una bambina”.
“Dio non voglia...”
“Dio, sempre questo Dio. Dio ci lascia liberi. Tu verresti a dirmelo?”
“Penso di sì”.
“E io cosa dovrei fare?”
“Dovrebbe... non so, immagino che non mi assolverebbe”.
“Esatto”.
“E mi denuncerebbe alle autorità ecclesiastiche e... a quelle secolari”.
“Ai carabinieri, dici? No, questo no”.
“E perché no?”
“C'è una direttiva molto precisa a riguardo, figliolo. Se ti denuncio rischio la scomunica”.
“Dunque la Chiesa... mi proteggerebbe?”
“Ora pecchi di stupidità. La Chiesa non protegge te. La Chiesa protegge sé stessa. Se tu infangherai il tuo abito, la Chiesa si tiene il diritto di lavarlo in casa propria. Sappiamo lavare come chiunque altro, noi. Meglio di molti altri, devo dire. Ora sai che, se un giorno tu peccassi, puoi venire da noi, da me, sapendo che io non chiamerò i carabinieri. Ti prenderò a ceffoni, questo sì. Lungamente”.
“E giustamente”.
“Ti spezzerò tutta una serie di piccole ossicine tignose che conosco io. Farò quanto mi è possibile per farti trasferire nella parrocchia dell'Africa nera frequentata dai più sifilitici dei sodomiti, ma non ti denuncerò. È giusto che tu lo sappia. E adesso vai. Che giorno è oggi?”
“Mercoledì”.
“Giorno dispari, ottimo. Buona meditazione”.

Una tragicommedia, la prima 'meditazione' di Don Tinto. All'inizio l'impresa sembrava veramente disperata, i polverosi numeri di Le Ore ritrovati nello stipetto rivelandosi quanto mai inadatti alla bisogna. Queste signorine, pensava Don Tinto, oltre a essere così desolantemente diverse dall'oggetto dei miei desideri, sono ormai tutte nonne; tranne quelle che senz'altro sono già passate a miglior vita; ora io devo credere a un Dio misericordioso che avrà perdonato i loro vizi di gioventù e le avrà portate in cielo; dal quale cielo mi possono vedere mentre tento di eccitarmi con le immagini dei loro decrepiti peccati, ormai rimessi, eppure ancora in circolo. Preso da siffatti pensieri, Don Tinto era tanto lontano dall'erezione quanto lo siete voi, miei intristiti ascoltatoti, in questo esatto momento. E tuttavia il padre spirituale era stato molto chiaro; ed era uomo di provata saggezza, a cui Don Tinto avrebbe ciecamente obbedito anche se non glielo avesse imposto il voto, appunto, di obbedienza. Di fronte a Don Tinto si spalancava la voragine, non già del peccato (quello sembrava essersi stranamente ridimensionato) ma della conoscenza di sé: che uomo era, se non riusciva a peccare nemmeno volendo? È santo l'uomo che tra il bene e il male sceglie la prima strada; ma è santo proprio perché sceglie, non perché un qualche accidente di natura gli ha impedito l'accesso alla seconda.

Quando alla fine il volume di Caravaggio dei Maestri del Colore riuscì dove le Ore avevano fallito, Don Tinto fu preso da uno disgusto di sé che mai nella sua vita aveva sperimentato. La sola idea di aver potuto nutrire pensieri per una ragazzina – lui? Era successo veramente? Erano solo fantasie, sogni, poi si sa com'è la vita nelle parrocchie, ci si annoia, si ingigantiscono le cose, ci si inventano peccati anche solo per avere qualcosa da confessare. Eppure, sotto tutto quel disgusto, covava una strana, secca soddisfazione. Dunque anch'egli era un uomo, in grado di disperdere il suo seme come chiunque altro. Aveva potere sul suo corpo; un potere che non avrebbe mai esercitato, ma ora era suo. Non era più un ragazzo in balia dei sogni. Quarantotto ore dopo, la prima sensazione di disgusto era scemata; ma la soddisfazione per la conquista del suo corpo ruotava ancora lì, vorticosa intorno al suo cuore. Don Tinto non covava più nessun assurdo pensiero per la moretta del coro. Si era dimenticato del tutto di lei; ma non del solenne impegno preso col Padre. All'ora prestabilita di venerdì, detta compieta, rientrò in bagno coi Maestri del Colore.

FINE
*******

"Finisce così?", disse ancora la stanca Verola. "Molto prima che diventi interessante, direi".
"Mia signora", concesse Don Tinto, "avrei potuto allungarlo ulteriormente, ma qui è dove ho cominciato a sentire che mi stavo scuoiando vivo. I racconti è giusto farli solo con i pezzi di pelle che sono già venuti via".
"Sento nelle tue parole una velenosa allusione al tuo rivale Taddei e al suo prolisso testamento spirituale. Ma lui è pur stato l'unico, in questo turno dedicato all'amor carnale, a non essersi fermato a sogni e masturbazioni, e meriterebbe meno di voialtri due d'essere eliminato. Ma qualcuno lo ha visto?"
"Mia signora, io l'ho sentito dire che andava al bagno. Sei ore fa".
"Poveretto. Va bene, direi che perde il turno per abbandono di campo. È un peccato però. Siete rimasti voi due idealisti che non fareste male a una mosca. Nessuno m'intratterrà più con bozzetti sociali, niente più racconti ossessionati dall'economia e dalla mano invisibile del mercato..."
"Mia signora, se è di questi racconti che avverte la necessità, possiamo provare a raccontargliene noi due. Propongo che l'economia sia il tema del prossimo turno".
"Ah, lo proponi, eh? Don Tinto, vecchia volpe, immagino che tu abbia già il colpo in canna. E sia. Comincerai tu. Ora, se non ti dispiace, mettiti il solito bavaglio davanti al muso, e va' a cercare il cadavere del povero Taddei nei bagni di servizio al primo piano. La vanga è sempre lì dove l'hai appoggiata, direi. Tu professore invece monterai la guardia, d'accordo?"
"A che ora vi sveglierò, mia signora?"
"Qualsiasi ora andrà benissimo, ma qualora non dovessimo svegliarci, non insistere troppo. Buonanotte".

******* FINE DEL QUARTO TURNO *******

domenica 28 agosto 2011

L'amore gratis (II)

(Continua da qui)

Cercò di vivere, che è la scelta che facciamo più o meno tutti. L'essenziale è trovare qualche distrazione che ci impedisca di arrivare puntuali all'appuntamento con quell'unica cosa di cui moriremmo volentieri. Si cercò qualche altro vizio, per esempio si rimise ad andare allo stadio come da ragazzino. Prese molti chili. Poi decise che li avrebbe persi e si fece venire la mania per la palestra. Si possono passare molti anni così, girando intorno: c'è un'enorme saggezza in quel modo di dire, “ingannare il tempo”. Fece anche qualche ultimo tentativo di sistemarsi, ma forse era troppo tardi. Le donne che riusciva ancora a incontrare erano accecate dalla paura di restare sole e fingevano con troppa ostinazione di non vedere i difetti che Sergio sapeva di avere. Una in particolare era così determinata a sistemarsi con lui che quasi lo convinse. Si misero persino a cercar casa. Entrambi però avevano passato da un pezzo quell'età in cui mettersi insieme significa crescere assieme. Erano ormai dipendenti di cento piccole abitudini maturate nei loro trent'anni di solitudine, la soap a mezzogiorno, la sigaretta dopo cena, e la convivenza sarebbe stata, Sergio lo capiva, un'infinita teoria di compromessi e armistizi, un equilibrio estenuante di pesi e contrappesi, che forse non li avrebbe uccisi, ma avrebbe fatto passare a entrambi venti, trent'anni di inferno. Sergio veniva da una famiglia così e non sentiva nessun vero impulso a portare avanti la fiaccola dell'odio domestico, delle cene in silenzio, dei pugni al muro, delle vite passate a dormire di fianco a un Nemico che russa e suda. Non voleva avere un bambino per raccontargli bugie, per ripetergli che ci sono cose che non si possono comprare, quando non è vero: tutto si può comprare, al massimo non c'è abbastanza denaro per farlo, ma il denaro è appunto l'unità di misura di tutto ciò che l'uomo può desiderare: le cose insomma stavano così e Sergio lo aveva sempre saputo, ma trovò la forza per dirlo forte e chiaro a sé stesso solo quella notte in cui, dopo aver chiesto ufficialmente alla sua fidanzata di sposarlo, Sergio la riaccompagnò a casa e poi scelse la via più lunga per tornare alla sua, guidando in tondo per ore attraverso quartieri familiari e sconosciuti, su una rotta molto più aggrovigliata del suo ragionamento, finché l'auto non si decise a condurlo sulla circonvallazione.

Lì era tutto cambiato: una rivoluzione antropologica senza precedenti di cui Sergio fu spettatore (pagante). Tossiche e professioniste erano sparite: al loro posto era arrivato, in blocco, il Terzo Mondo, causando un'inflazione di sesso inimmaginabile fino a pochi anni prima. In tasca era convinto di avere una cifra appena sufficiente a permettergli una sveltina e quattro chiacchiere vaghe e consolatorie; scoprì invece di essere un gran signore in grado di concedersi notti intere con regine della savana che, certo, non erano in grado di chiacchierare nella sua lingua, ma lo avrebbero servito e riverito in tutto il resto. Sergio non si era mai sentito ricco in vita sua, non aveva neanche mai provato a immaginare come ci si potesse sentire di fronte a qualcuno che si inginocchia perché glielo chiedi, e per qualche lira in più si schiaccerebbe a terra. Come reagirebbe un ex alcolista se scoprisse che sotto casa vendono liquori esotici a un euro il litro? La sua ricaduta fu tombale: ci mise una settimana a farsi rendere l'anello di fidanzamento, un mese a spenderlo. Niente più stadio o palestra, basta. Ora si trattava di lavorare e spendere, nient'altro che lavorare pensando al momento in cui avrebbe speso, e poi spendere senza pensare più a niente. Sarebbe senz'altro morto di qualche malattia orribile ma non gli importava, le alternative a sua disposizione le aveva già sondate e non gli interessavano.

Non morì. A volte è la morte che non si fa trovare all'appuntamento, si vede che ha altri progetti. Dopo qualche anno di intenso corteggiamento, Sergio sentì che la furia rallentava, sostituita da una pulsione più fredda: da ghiottone stava diventando un gourmet. Era molto più attento a dove buttava i soldi, al rapporto tra qualità e prezzo, che da un certo punto in poi divenne parte integrante del piacere di andare a puttane (ormai tutti in Italia le chiamavano solo così, “puttane”: per l'unificazione linguistica c'erano volute le invasioni barbariche). Divenne davvero un antropologo, per lo meno trent'anni prima uno studioso avrebbe dovuto viaggiare il periplo delle terre conosciute per scoprire le banali nozioni che mise insieme lui. Per esempio: non importa quanto apparissero toniche e fiere, le africane avevano sempre paura di tutto. Della polizia, della madame, della magia nera, del medico bianco, del cliente ubriaco, del cliente che sembra calmo e quindi è uno psicopatico, dell'Europa che è un posto da matti. Col tempo potevano smettere di aver paura di un cliente affezionato, ma di solito a quel punto cominciano a disprezzarlo. Le slave invece avevano ambizioni; forse perché bianche erano convinte che non avrebbero fatto sempre lo stesso lavoro e più spesso di altre cercavano il fortunato o il pollo disponibile a riscattarle; ma miravano quasi sempre un po' più in alto di Sergio, che non le biasimava certo per questo. Le cinesi (ma sarebbero arrivate un bel po' più tardi) arrivavano da un altro mondo e ti trattavano come un oggetto di un altro mondo, di cui magari avevano letto su un manuale di istruzioni con poco testo e molte figure. Le sudamericane erano intense e leggere, il sesso per loro era soprattutto danza, a volte sfrenata, a volte pura coreografia. Vi erano poi altre categorie trasversali: a seconda di cosa stavano pensando le puttane mentre stavano con lui, Sergio le divideva in coatte, che facevano quel mestiere soltanto perché costrette, odiando sé stesse e i clienti; lavoratrici, che anche nei momenti più abietti stavano sempre pensando ai soldi che avrebbero inviato ai genitori lontani, o al figlio che stavano mandando alle elementari del quartiere, o al bar che avrebbero aperto o alla casa che avrebbero comprato; e infine tossiche: quelle esistevano ancora e sarebbero esistite sempre: non pensavano che alla loro morte personale, mentre aiutavano Sergio a morire.

Quanto a lui, non aveva vere preferenze: gli piaceva variare i sapori, improvvisare, sperimentare: poteva passare una notte intera a chiacchierare con una vecchia ballerina brasiliana e il giorno dopo farsi manipolare per pochi minuti da una orientale che non spiccicava una parola. Col tempo si costruì una specie di etica minima di sopravvivenza: niente stradali (troppo scomode), niente rapporti scoperti (i rischi restavano, ma la paranoia calava), niente amiche (mai tornare dopo la terza volta). Smise abbastanza presto di frequentare le cosiddette 'coatte', anche se all'inizio la sensazione di fare violenza su di loro lo aveva stuzzicato; ma senza essere mai stato un uomo buono, Sergio non era mai nemmeno stato un violento; la pulsione a fare male ad altri che a sé non che una distrazione di cui col tempo si liberò, così come pensava di essersi liberato del fantasma dell'amore gratis.

Fino a quella sera che non bussò alla porta di quel caseggiato di Santa Margherita, attirato dalla foto di un culetto sodo che aveva visto in uno dei primi siti internet di annunci. Sapeva già che raramente la foto di un culo ha a che vedere col culo effettivo, come del resto succede con le immagini del cibo sulle scatole dei surgelati. Gli piaceva però l'idea che quella ragazza avesse deciso di mostrare il culo e non la faccia: denotava una certa timidezza, magari era una cameriera che arrotondava. Più probabilmente il viso non era un granché, e anche questo andava benissimo per Sergio: col tempo aveva imparato a non fidarsi dei bei faccini, all'atto pratico non restituivano le soddisfazioni di un volto bruttino ma contratto dallo sforzo, dalla concentrazione a far bene. Che la ragazza non fosse un fiore lo confermò la penombra in cui lo ricevette: i due pattuirono rapidamente quello che ritenevano il giusto per un'ora di prestazione, ma Sergio forse era stanco o troppo carico, insomma risolse tutto in cinque minuti. Quando succedevano queste cose – sempre più di rado col tempo – non se la prendeva più di tanto: amava attardarsi a chiacchierare del più e del meno; a questo punto della vita del resto a parte le prostitute non conosceva più molta gente disponibile ad ascoltarlo
.
Fu proprio mentre si lamentava di un guaio successo in officina, o si abbandonava alla sua massima speculazione filosofica (“perché scopare costa così tanto rispetto al mangiare? Sul serio una sveltina vale come un pranzo di tre portate al ristorante? Quanta manodopera è servita per preparare quel pranzo?”), che la sconosciuta in penombra a cui era ancora vagamente abbracciato disse questa cosa che all'inizio lo stupì soltanto un poco:

“Posso baciarti?”

Il bacio, nella prostituzione, è una pratica piuttosto borderline. Molte professioniste non lo concedono, se non dietro l'esborso di un sovrappiù eccessivo che Sergio non riteneva quasi mai necessario. Perciò rispose alla domanda con l'allegria stupita del bambino a cui si offre un bicchiere di aranciata extra. Mentre si faceva baciare e ribaciava, Sergio si accorse che erano anni che non perdeva più tempo a fare questa cosa sciocca da ragazzini, che invece a ripensarci era potente, tanto che in pochi minuti si ritrovò a gestire una seconda erezione, evento che in quella fase della sua vita aveva del miracoloso. Fu insomma un'ora eroica, come non ne aveva passate da tempo: rincasando, esausto e felice, si ripromise di tornare la settimana successiva, cosa che faceva soltanto in casi straordinari sempre più rari. Si accorse poi l'indomani che stava contando i giorni. Quando finalmente arrivò il momento di ripresentarsi a quel portone (le tempie gli pulsavano come non gli succedeva da anni), di schiacciare un tasto dell'ascensore con una mano che gli tremava un poco, fu all'improvviso colto da un sospetto: forse quello era il suo giorno, forse stavolta la morte si sarebbe presentata all'appuntamento. Ma poi venne ad aprirgli la porta un'altra ragazza, che Sergio non aveva mai baciato.

“Ma tu non sei Gloria”.
“Certo che sono io, amore”.

Questa era una situazione classica, fin troppo nota a Sergio: una ragazza mette un annuncio, e se poi quella sera è impegnata lo passa a una collega. Non aveva senso prendersela tanto, e invece Sergio era mortalmente deluso e infuriato con sé stesso per non aver chiesto qualcosa di più. Non l'aveva nemmeno mai chiamata per nome: “Gloria” era quello che aveva letto sull'annuncio, ma più che un nome di persona era il marchio di un prodotto. Si rese conto che in tutta la sua vita aveva baciato davvero solamente una ragazza, e non sapeva come si chiamasse. Ma c'era di peggio: faceva fatica a ricordare il volto. Un po' bruttino, senz'altro, irregolare, ma non riusciva a ricordarsi quale irregolarità: un naso schiacciato? gli occhi non simmetrici? Meglio non perder neanche tempo con l'acconciatura dei capelli.

“Scusa, io sono venuto mercoledì scorso, c'era per caso una tua amica?”
“Ah, mercoledì... no, mercoledì non so chi ci fosse... dovrei chiedere”.

Il peggio che poteva capitargli: era finito in un puttanodromo, un appartamento preso in affitto da un pappa che ci manda ragazze in rotazione: e Sergio sapeva che le ragazze potevano essere cinque, dieci, cento. Poteva trattarsi di una piccola impresa a conduzione famigliare o di un racket con diramazioni in tutt'Italia, l'unico modo per capirlo era tornare lì tutte le settimane, forse tutte le sere, è la sola persona che mi abbia davvero baciato (pensò), la sola che mi abbia voluto baciare... ero lì al buio che dicevo cazzate e me lo ha chiesto!

Che idiota era stato. Una persona aveva avuto voglia di lui, e lui aveva reagito nell'unico modo che ormai conosceva: scopandola e riscopandola, come probabilmente avevano fatto mille altri. Avrebbe dovuto continuare a baciarla per tutta l'ora della prestazione pattuita. Avrebbe dovuto continuare a baciarla tutta la notte. Gratis. E invece era andato via senza nemmeno guardarla bene in faccia, senza nemmeno chiedere il suo nome. Però poteva ritrovarla. Era senz'altro da qualche parte, magari in quell'esatto momento chiedeva baci a un altro sconosciuto. Prima o poi sarebbe tornata lì. Doveva tornare lì. Sergio l'avrebbe conosciuta. Non si permise di fantasticare più in là di così, anche se per qualche istante la prospettiva di un bar sulla spiaggia e due marmocchi gli balenò davanti. Era quello il vero progetto che la morte aveva per lui? Tanto peggio, lui non aveva davvero scelta a questo punto. Sarebbe tornato in quella casa finché non l'avrebbe ritrovata.

“E allora amore cosa facciamo? Te ne vai? Non ti piaccio?”
“No, anzi. Resto, resto”.
Non era il caso di offendere una persona che stava lavorando. Anzi, aveva bisogno di coltivare dei contatti, ora che diventava un cliente fisso della casa.

Nei tre anni successivi divenne qualcosa di più di un cliente fisso. Ne impiegò meno di mezzo per realizzare l'entità dell'organizzazione che affittava l'appartamento: non un racket miliardario, fortunatamente, ma una turbolenta cooperativa di signore che venivano tutte dallo stesso lontano paesello, a volte con un figlio e più di rado con un marito inutile appresso; e ai padri e ai fratelli restati a casa raccontavano di fare le badanti. Alcune di loro di giorno lo facevano davvero, senza molto entusiasmo, ma la pratica di regolarizzazione fila molto più rapida se ti presenti spingendo una carrozzina. La cooperativa faceva capo a due o tre matriarche, una delle quali si chiamava davvero Gloria e aveva detto il suo vero nome a Sergio, la seconda volta che si era presentato.

Erano brave donne, un po' indurite dall'esperienza del mondo: Sergio non aveva nessuna difficoltà ad ammirarle per lo spirito di iniziativa con cui si erano tenute a galla, e loro cominciarono a provare riconoscenza per questa ammirazione: per gli altri italiani non erano che puttane, per i compaesani streghe che col loro nefasto esempio avevano portato alla perdizione una piccola truppa di cugine, sorelle, cognate (e intanto il paesello natale si arricchiva coi soldi delle rimesse, in giro cominciavano a vedersi automobili di una certa cilindrata). I loro uomini, arrivati col ricongiungimento famigliare, non erano riusciti a integrarsi altrettanto bene: trovarsi un lavoro sarebbe stato ridicolo, non c'era per loro in Italia nessun lavoro che fruttasse in un mese quello che le loro donne mettevano assieme in un fine settimana. In teoria dunque facevano i protettori, ma non è che ci fosse tanto da proteggere: l'appartamento era frequentato da tizi timidi come Sergio, che non creavano nessun problema alle ragazze, per cui non c'era necessità reale di nessun vigilante col coltello; non restava che appoggiare il culo in un bar poco lontano e mettersi a bere, col bel risultato di attirare l'attenzione delle forze dell'ordine che poi bisognava distrarre imponendo alle ultime ragazze arrivate un sacco di straordinari quasi sempre non pagati. In mezzo a tutto questo, l'appartamento era in pessimo stato: chi chiamare quando si rompe un tubo? Ovviamente i condomini rifiutavano di collaborare.

In mezzo a tutta questa ridda di litigi famigliari, irruzioni, corruzioni, tubi rotti, Sergio cominciò a divertirsi come non gli era mai successo in vita sua. Non vedeva l'ora di staccare dall'officina – e salutò addirittura con sollievo la cassa integrazione – per salire nell'appartamento con la valigia degli attrezzi. Oppure c'era da portare una ragazza dalla ginecologa, o a malattie infettive, ma dopo un po' anche dall'estetista, o al centro commerciale, o al cinema. Benché spesso gli affidassero le ragazze giovani, appena arrivate – o forse proprio per questo – Sergio le trattava con diffidenza. Avevano una luce negli occhi che prometteva male, i nastrini colorati della città ricca le distraevano dalle brutture del loro mestiere: pensavano ancora di vivere nel primo tempo di un film romantico che sarebbe finito bene. Di lì a poco, Sergio lo sapeva, avrebbero dovuto scegliere se diventare lavoratrici o tossiche: non gli piaceva troppo l'idea di essere lì mentre arrivavano al bivio, di essere l'uomo che le accompagnava. E poi erano snervanti, ci mettevano tre ore a far la spesa e riempivano il carrello di scemenze, che a Sergio toccava spingere.

Preferiva di gran lunga la compagnia delle matriarche. Con Gloria in particolare legò molto, era una donna molto intraprendente e decisa, e allo stesso tempo non aveva nessuna vergogna a chiedergli aiuto quando ne aveva bisogno. Ormai non scopava più molto: era in cassa integrazione dopotutto, e benché in quanto factotum della casa potesse contare sulla libera generosità delle operatrici, non se la sentiva di sollecitarla troppo. Capiva di amare quella casa che cascava a pezzi, quella strana famiglia di puttane nevrotiche, e di amarla gratis. O forse si era stancato del sesso, come ci si stanca di tutto, perfino di morire. Di sicuro ci pensava meno, una volta era il suo ultimo pensiero fisso prima di addormentarsi, ora no. L'unico chiodo che non riusciva a levarsi era l'ombra di quella ragazza che gli aveva chiesto di baciarlo. Nessun altro lo aveva fatto da lì in poi. Sergio aveva battuto tutte le piste, finché da qualche mezza ammissione di Gloria non aveva costruito questa verità: poteva trattarsi di una ragazza appena arrivata che dopo un breve periodo di prova se n'era ritornata al paesello. Evidentemente il bacio di Sergio non era riuscito a trattenerla: o forse la ragazza ci era rimasta male che dal rospo non fosse uscito subito un principe; insomma, se n'era andata, e a Sergio piaceva immaginarla certe notti su uno sfondo di cartolina, mentre trascinava per mano due marmocchi bruttini, ma pieni di vita. “Non ti sei persa un granché, sconosciuta”, diceva sottovoce; e ci piangeva un po'. Stava invecchiando.

In quel periodo Gloria e il suo marito inutile vennero alle mani, più volte; l'ultima toccò persino a Sergio dividerli, ma non fu difficile, l'uomo era fradicio. Lo avevano già avvisato di smetterla di molestare la Gloria, persino il maresciallo lo aveva preso in parte e gli aveva spiegato che sarebbero finiti nei guai tutti. Alla fine accettò un biglietto in business e una congrua liquidazione per tornare al paesello, dove erano già pronte le carte per il divorzio. Sergio aspettò una settimana e poi invitò Gloria a cena in un ristorante in centro. Non voleva chiederle di sposarla, ma voleva abituarsi all'idea che in un'altra sera del genere magari sarebbe successo. Gloria non seppe dirgli di no, era un buon uomo, forse l'unico italiano di cui era riuscita a fidarsi. La cena scivolò senza imbarazzi, del resto erano ormai abituati a chiacchierare con molta libertà, da buoni amici. A Sergio piacevano soprattutto gli aneddoti sui vecchi clienti come lui, i trucchi del mestiere eccetera. A un certo punto il discorso finì su quel classico tipo di cliente che dopo aver concluso, quando la lavoratrice è stanca e vorrebbe solo docciarsi, attacca a chiacchierare del più e del meno e va avanti per ore. Oh se ne conosceva Gloria, di tipi così! Insopportabili davvero, si pagassero uno psicanalista... e a quel punto, con un filo di panico nella voce, Sergio chiese come facesse di solito Gloria, a liberarsi di quei tipi lì.
“Cosa vuoi che faccia con quelli, c'è un solo modo per chiudergli la bocca. Mi metto a baciarli. Fa un po' senso, ma almeno...”
“Cioè, loro stanno parlando e tu... ti metti a baciarli?”
“No, di solito glielo chiedo”.
“Glielo chiedi”.
“Sì: posso baciarti? Non ce n'è uno che risponda di no, eh, eh”.
“Eh, immagino”, rispose Sergio: e mentre rispondeva così, capì che stava morendo, dentro, nell'unico luogo dove aveva vissuto davvero; e che tutto ciò che sarebbe sopravvissuto da quella sera in poi, fuori dallo spazio di questo racconto, non era che un guscio senza importanza.

FINE

*******

“Sarò franca, mio buon Taddei”, rispose Verola quando la svegliarono. “Mi sono appisolata quando il tuo protagonista è partito per il militare. Tutte quelle fosse che abbiamo scavato stamane devono avermi un poco provato. Dimmi solo: l'ha trovato, il tuo Sergio, l'amore gratis?”
“Troppo tardi, mia signora”.
“Lo immaginavo. Va bene, domani tocca al prete”.

venerdì 26 agosto 2011

Walter lo scrivano

Insomma, Veltroni ha scritto un'altra lettera alla Repubblica. E voi non l'avete letta. E io invece sì. E indovinate un po', cita Olof Palme, il Sessantotto, Berlinguer e... no, stranamente Don Milani stavolta non c'è. C'è però un racconto di Herman Melville, indovinate quale dai, indovinate.


Complimenti. Avete vinto un link a Cosa c'è che non va con Veltroni? (H1t#88), che si legge e si commenta sull'Unita.it

Ma Walter Veltroni se lo fila più nessuno? A parte i massimi quotidiani nazionali, che continuano impietosi a pubblicare tutte le sue lunghe lettere, come Repubblica oggi, ormai senza neanche mettere a posto le virgole e – quel che è peggio – senza moderare i commenti. Col risultato che tutti tranne forse Veltroni si possono aspettare, ovvero che in capo a mezza giornata l'ennesima orazione riformista si ritrovi sprofondata in un mare di pernacchie, di “vattene in Africa” ormai stucchevoli ma non del tutto campati in aria. D'accordo, la maggior parte dei lettori i commenti nemmeno li legge. Ma almeno Veltroni dovrebbe darci un'occhiata, dal momento che è da più di un annetto che sembra sondare il bacino di quotidiani e internet alla ricerca di uno spazio dove rilanciarsi: giusto per capire le dimensioni dei buchi nell'acqua che invece i suoi interventi producono.

Cosa c'è che non funziona nella comunicazione di Veltroni? Un po' tutto, verrebbe da dire: perfino quegli spazi messi prima delle virgole, che nessun redattore professionista lascerebbe in un testo da pubblicare su un quotidiano, e che a livello subliminale suggeriscono la solitudine di un uomo politico che un tempo aveva senz'altro uno staff che gli desse un'occhiata alla punteggiatura, e oggi evidentemente no. Il tono paternalistico per cui ogni tensione mondiale – dalla crisi dei mercati europei agli scontri di Londra – deve sempre essere causato dall'egoismo di un monello globale che non sa dire “noi”, che sa dire solo “no”, che insomma non vuole ascoltare il predicozzo del buon Walter che gli spiega di fare il bravo e pensare agli altri: un approccio non proprio ideale per il lettore di quotidiano, che assume un aspetto suicida quando Veltroni cerca di trasferirlo in un ambiente radicalmente egalitario come Facebook, dove il suo accorato invito ai pacifisti italiani a essere bravi e coerenti e scendere in piazza contro Gheddafi ottenne meno apprezzamenti della risposta di uno sfigato chiunque (il sottoscritto). Che altro? L'irriducibile pulsione al ma-anche, per cui un pezzo che sembra salvare, degli ultimi vent'anni di centrosinistra, solo l'esperienza di Prodi, deve comunque concludersi con un inno ai patriarchi del PCI, sia mai che si possa fondare la sinistra di domani senza ricordarsi di onorare Occhetto e Berlinguer...

Ma soprattutto, una certa ripetitività, che sconfina nel comico involontario, per cui dopo averne lette una mezza dozzina ormai la prossima letterina veltroniana potremmo scriverla noi: è sufficiente ricordarsi, in presenza di qualsiasi rivolgimento sociale, di citare il Sessantotto, giusto per ribadire che comunque era diverso, perché allora si voleva “cambiare il mondo”... anche se poi alcuni si sbagliarono e diventarono terroristi cattivi, insomma, tutta una Storia d'Italia ridotta ai minimi termini di una fiction Rai che a questo punto credo irriti per primo chi il Sessantotto lo ha vissuto davvero, e si ricorda che le cose erano un filo più complesse. Invece, quando si parla di riformismo, bisogna sempre ricordarsi di citare Olof Palme, come se poi l'esempio di questo Palme potesse risultare utile al lettore medio. Il che non è, insomma, qualcuno prima o poi dovrebbe spiegare a Veltroni che la maggior parte dei lettori del suo bacino di riferimento non si ricorda chi sia, il buon Palme, se non un pallino privato di Walter Veltroni.

Il fatto è che certe ripetizioni veltroniane ormai più che distrazioni sembrano ossessioni, non facilmente spiegabili e persino un po' inquietanti. Faccio un altro esempio: ogni volta che qualcuno, nella sua prosa, dice “no”, Veltroni sembra costretto a soggiungere che lo fa “come Bartleby lo scrivano”, il protagonista di quel famoso racconto di Melville che poi, secondo me, in Italia così famoso non è. Voglio dire che se parli di Renzo e Lucia, su un quotidiano, tutti i tuoi lettori non faticheranno a ricordarsi che si tratta di due fidanzati con qualche difficoltà a concludere; se parli di metamorfosi kafkiana, alla maggior parte non sfuggirà che si tratta dello strano caso di un uomo che si risveglia trasformato in scarafaggio. Ma se parli di Bartleby, ecco, a quel punto non credo che la maggioranza abbia ben chiaro a cosa ti stai riferendo. A questo punto di potrebbe ipotizzare che Veltroni stia cercando i suoi nuovi interlocutori tra gli appassionati di letteratura americana, o i fans di Baricco, che sono comunque un bacino cospicuo. Il fatto è che anche questi non disprezzabili conoscitori di Melville, ogni volta che Veltroni lo cita, non riescono comunque a capire dove voglia andare a parare.

Due anni fa per esempio per Veltroni Bartleby era D'Alema, perché diceva sempre di no. E già in quel caso c'era qualcosa di maldestro nel riferimento letterario: per quanto ci si sforzasse si faticava a immaginare i baffetti di D'Alema sul volto inespressivo dello scrivano che si lascia morire di inedia in prigione perché preferirebbe non mangiare. Nella lettera di oggi, per contro, il riferimento scatta davanti ai "pochi, coraggiosi, docenti italiani che si sottrassero al giuramento di fedeltà al fascismo e risposero, come Bartleby lo scrivano ,"Preferirei di no"”. Superfluo notare che non risposero proprio così. Ma anche stavolta, quel Bartleby esattamente cosa c'entra? Chiunque abbia letto il racconto sa che non si tratta di un eroe; tra i critici che si sono cimentati con l'enigma c'è chi lo considera un'incarnazione dell'alienazione, della depressione, perfino del blocco dello scrittore. Il modo in cui oppone il suo rifiuto prima al datore di lavoro, e poi progressivamente al mondo non sembra avere molto di politico; poi naturalmente la politica si può attaccare a qualsiasi cosa, ma l'impressione è che Veltroni più che operare dei riferimenti efficaci a opere letterarie condivise si impigli troppo spesso nelle reminiscenze private delle sue tante passioni (cinema jazz figurine romanzi).

Al punto che uno smette di pensare a cosa Veltroni vorrebbe dagli italiani per domandarsi cos'è che Veltroni nasconde, nella sua testa, sotto il feticcio di Bartleby. Forse un'irrazionale pulsione a restare nella sua posizione, come il copista nel suo studio su Wall Street, quando ormai il suo capo lo ha licenziato e persino l'azienda si è trasferita. Magari Veltroni non se ne rende conto, ma se c'è un Bartleby in Italia oggi, probabilmente è proprio quel personaggio che si ostina a ricopiare la storia del Sessantotto e degli anni di piombo, a dettare manifesti riformisti a destra e manca, a ringraziare Di Vittorio e Berlinguer. Fuori il più della gente lo ignora; chi ancora lo nota gli domanda con stanca malizia se non è il caso di andare in Africa. Lui evidentemente preferisce di no. http://leonardo.blogspot.com

L'amore gratis (I)

(2011)
Sergino, gli avevano detto sin da piccolo, i soldi sono una gran cosa, ma non ci puoi comprare tutto: la salute, per esempio, non si compra. Poi però la cara zia era morta mentre la portavano all'ospedale e Sergio aveva chiesto: ma se avessimo avuto più soldi non avremmo potuto portarcela noi in automobile, invece di aspettare l'ambulanza? O andar a vivere in una di quelle belle palazzine vicino al Pronto Soccorso? E a denti stretti il padre aveva ammesso che in certi casi la salute si può misurare in soldi. L'amore però no, aveva aggiunto. L'amore non si compra. Sergio però non aveva ben ancora chiaro cosa l'amore fosse: era una di quelle grandi parole che gli adulti usavano, scatole dentro le quali Sergio non sapeva ancora bene cosa mettere, e così dentro la scatola AMORE cominciò a infilare tutte le cose che non si potevano comprare, non per mancanza di soldi ma di commercio. Per esempio, le figurine erano un passatempo piacevole, ma si compravano: quindi erano un vizio. La partita a pallone nel cortile dell'oratorio, quella non si pagava: Sergio infatti 'amava' giocare a pallone dietro l'oratorio. Tutto abbastanza chiaro, finché non conobbe una brava ragazza e la corteggiò.

A quei tempi i corteggiamenti erano cerimonie molto più estenuanti di adesso, ma non era l'impazienza che stringeva il cuore a Sergio, quanto la sensazione che stare con questa ragazza gli costasse. Doveva portarla al cinema, a volte addirittura al ristorante. Farsi prestare l'auto del fratello maggiore e riportargliela pulita col serbatoio allo stesso livello. Detto questo, Sergio sentiva che avrebbe pagato volentieri anche di più, se ne avesse avuto, ed era questa sensazione a creargli dei problemi. Se per stare con la ragazza doveva pagare, non era vero Amore, erano ancora figurine: un passatempo piacevole, uno sfizio, una cosa che fai solo se te la puoi permettere, e forse Sergio ancora non poteva. Aveva appena iniziato a lavorare e sapeva di dover partir militare da un momento all'altro.

Eppure, al di là di tutte queste preoccupazioni, Sergio credeva di amarla, la sua bella. Non pagava mica lei, infatti, bensì tutti gli ostacoli che si mettevano tra lui e lei: la benzina per raggiungerla, il cinema per poter sedere vicini senza temere il giudizio altrui, né sforzarsi a trovare argomenti di discussione, l'abito necessario a mostrare uno stile di vita un po' più sostenuto di quello che Sergio poteva realmente permettersi, non tanto per vanità, ma per mostrare almeno un po' di ambizione nella vita. Tutte queste cose andavano pagate per arrivare a lei, ma Lei era altrove: se ne stava tranquilla, dall'altra parte di un'infinita teoria di dogane che Sergio doveva passare, sborsando ogni volta un pedaggio o un dazio, ma col sorriso di chi sa che non tornerà sui suoi passi, che prima o poi gli ostacoli sarebbero finiti e Sergio sarebbe infine approdato al vero amore, che è gratis.

Arrivò prima la cartolina del militare. Sergio si ritrovò sbalzato a quattrocento chilometri dalla sua amata, e al telefono era una frana, i gettoni cadevano in un silenzio gonfio di desiderio. Usò le prime tre licenze per andare a trovarla, e ogni volta la sentiva più lontana, le dogane tra lui e lei si erano quadruplicate e sembravano aumentare. Poi realizzò che semplicemente non se la poteva permettere. Fu quando ottenne una licenza breve e le propose di venire lei nella sua nuova città: e ancor prima di toccare l'imbarazzante tasto di chi avrebbe dovuto pagare il biglietto, si sentì controproporre una terza città, a metà strada. Sergio non conosceva ancora bene l'amore ma sapeva fare i conti: gli ci vollero pochi secondi a confrontare i tre viaggi compiuti solo per vedere lei (800 x 3 = 2400 km), col mezzo viaggio che lei era disponibile a sobbarcarsi (400 km). E insomma il rapporto era di uno a sei: poteva funzionare? Il viaggio andò a monte e quando fu congedato, otto mesi dopo, la ragazza era già ufficialmente fidanzata con un altro.

Nel frattempo Sergio aveva iniziato ad andare a mignotte, come si diceva in quella città (a quei tempi davvero ancora ogni città aveva nomi diversi), più per la necessità di stare in compagnia coi commilitoni che per autentica passione – come le figurine, le mignotte si pagavano: non si pagavano dazi o intermediari; non ti spillavano soldi in attesa di qualcosa che nessuno ti garantiva sarebbe arrivato: come le figurine, le mignotte restituivano una soddisfazione immediata e superficiale, qualcosa di cui Sergio era sicuro che si sarebbe vergognato non appena sarebbe cresciuto un po'. Questo capita a molti ventenni, di dare per scontato che cresceranno ancora. È comprensibile: in fondo non hanno smesso di crescere e cambiare da quando sono nati, ogni anno hanno scoperto qualcosa di diverso su di loro e sul mondo, con un andamento iperbolico che lascia immaginare scoperte e cambiamenti sempre maggiori. E invece Sergio non sarebbe mai più cresciuto: era già un uomo fatto, anche se ancora non lo sapeva; le passioni che aveva coltivato in quei vent'anni lo avrebbero accompagnato per il resto della vita; non si sarebbe mai davvero lasciato alle spalle la passione per le figurine, non avrebbe mai smesso di immaginare la felicità come un campetto dietro l'oratorio dove puoi andare a giocare a pallone quando vuoi e nessuno ti manderà via, e avrebbe continuato ad andare a mignotte, sempre vergognandosene un po', ma non abbastanza per smettere.

Ci furono in mezzo alcune delusioni. Per alcuni anni Sergio continuò a pensare che avrebbe trovato la ragazza giusta, si sarebbe sistemato e avrebbe fatto dei figli, di cui per il momento non aveva nessun desiderio, ma col tempo gli sarebbe venuto. Molti suoi amici e coetanei gli stavano mostrando che si poteva diventare adulti così, senza sforzi sovrumani, semplicemente lasciandosi guidare dalla corrente, dal desiderio collettivo di tutte le persone accanto a te che ti desiderano sistemato. Ma Sergio forse non aveva abbastanza persone accanto a sé; la famiglia non lo poteva aiutare; a trovare un lavoro dignitoso ci mise un po' di tempo, e nel frattempo invitare le ragazze fuori continuava a essere imbarazzante. E nessuna ragazza forse lo accecò al punto da non riuscire a vedersi per quel che era, un ragazzo bruttino senza grossi progetti per il futuro, chi se lo sarebbe preso un tipo così? A volte si accorgeva di nutrire un sottile disprezzo chi ancora accettava di uscire con lui. Del resto questo succedeva sempre più di rado; in un qualche modo Sergio aveva passato la boa dei trent'anni, che è più o meno il momento in cui la maggior parte di noi ha già incontrato almeno una volta la propria morte.

Ognuno la trova ovviamente in un luogo diverso: chi nell'alcool, in una droga, nella passione per uno sport estremo, o per il gioco compulsivo, o per le macchine che vanno troppo veloce; in un lavoro che ti succhia la vita e ti distrugge la famiglia, oppure in una famiglia che ti succhia la vita e ti impedisce di lavorare: ognuno di noi a un certo punto incontra quella cosa più forte di lui che sarà la sua fine. È una cosa che avviene di solito entro i trenta (in Italia: altrove saranno più rapidi, come al solito). Prima non capisci niente, provi tutto quello che riesci a provare senza capire se ti piaccia veramente o no, ti attacchi alla canna della vita con l'idea di poter inghiottire qualsiasi cosa e il bello è che per qualche anno è davvero così: riesci a inghiottire qualsiasi cosa, provi piacere e disgusto e non sai distinguerli. Bevi ettolitri di birra senza nemmeno accorgerti che sei un alcolizzato, poi un giorno ti svegli e capisci che lo sei: che l'alcool è la cosa più importante della tua vita; che il tuo stipendio lo calcoli in quanto alcool ci puoi comprare; che i tuoi amici li classifichi a seconda di quanto alcool ti possono offrire o scroccare. A quel punto non è che sei morto, ma hai visto la tua morte in faccia, e la cosa è più positiva di quanto sembri: ora che sai di cosa morirai, puoi anche decidere quando. Se vuoi vivere a lungo, da quel momento in poi metterai più ostacoli possibili tra te e l'alcool: disintossicazione, gruppi anonimi, metter su una famiglia, c'è gente che è arrivata a ottant'anni così, e alcuni non hanno nemmeno smesso di farsi una birra ogni tanto, giusto per il piacere di fare due chiacchiere con la tua più vecchia amica che è la tua personale morte.

Fu insomma verso i trent'anni che Sergio capì che la sua morte sarebbero state le mignotte. Aveva da poco ripreso ad andarci, dopo l'ennesima delusione; lo consolavano, davano un senso ai soldi che portava a casa e non stava investendo in nessuna casetta con giardino. Non le disprezzava, anzi ammirava la professionalità con la quale si abbassavano a stare un po' con lui per soldi. A quel tempo si dividevano ancora sommariamente tra professioniste e tossiche. Le professioniste non mettevano fretta, cercavano per quanto possibile di fideizzare il cliente, insomma passavano rapidamente da amanti a mamme; e quello era l'esatto momento in cui Sergio capiva che lo stavano fregando, e troncava. E valeva la pena di pagare un pochino anche per il piacere di essere lui a troncare, a decidere di cancellare una frequentazione. Alle tossiche non interessava fideizzare, non interessava proteggersi, non interessava niente. Avevano bisogno di soldi e si facevano fare di tutto. Nei loro sguardi aggrottati e rapaci Sergio si riconosceva. Correndo verso la loro morte, avevano incrociato Sergio che si avviava più lentamente verso la sua. C'era ancora tempo, infatti: una malattia venerea, curabile ma fastidiosa, gli diede un grosso spavento e lo convinse a rigar dritto, per un po' (continua).

mercoledì 24 agosto 2011

L'ombelico è un problema complesso

(2004)
Chi crede ai sondaggi e alle inchieste, chi li fa, sembra affezionato a questa idea:
che la gente, interrogata, dica sempre la verità. Gratis. A degli sconosciuti. Quando è già così difficile dirla a sé stessi.

La verità, tutte le volte che mi sono trovato un microfono davanti, mi è parsa la più remota delle opzioni – ma basta parlare di me e del mio ombelico. Parliamo invece di quello di Calozza Clarissa, classe II C, tutta allegra sotto il burqa nero: il motivo di tanta eccitazione?

A domanda del cronista risponde che l'idea non è sua, ma della compagna e amica del cuore Bellei Wanna, che l'altroieri nel putiferio seguito alla circolare a un certo punto ha esclamato: ma perché non facciamo come quelli là di Avezzano? Sabato mattina tutte in burqa! I tradizionali veli afgani sono stati cuciti dalla mamma di Clarissa, sarta part-time. Ah, quindi la mamma è d'accordo… "Le abbiamo detto che ci servivano i costumi di Halloween".

L'amica Wanna in realtà si è già stancata del travestimento, scoprendo magliettina viola e piercing ombelicale di ordinanza. "Avevo un caldo…". Sì, come no. A metà ottobre è definitivamente autunno, qui: piove da tre giorni, ma di avviare le caldaie scolastiche non si parla. Sono effettivamente i giorni a maggior rischio raffreddore. Ma chi conosce Vanessa ha imparato a non sottovalutare il potere della sua melatonina mutante, che in agosto immagazzina su uno sdraio di Cesenatico il calore necessario a scaldare l'ambiente circostante da settembre ad aprile. Così che non è un caso che intorno a lei i ragazzini avvampino. L'ombelico di Vanessa non va in letargo nemmeno a Natale: al rinfresco dell'anno scorso si è presentato in aula magna adorno di un campanellino, jingle bells, jingle bells. Idea copiata da un catalogo sisley, ok, ma tutti abbiamo copiato qualcosa o qualcuno a 16 anni. È comunque probabile che pensasse proprio a quel campanellino il Preside, quando l'altroieri ha pensato bene di riciclare la circolare di Avezzano che vieta agli studenti i calzoncini a vita bassa, cambiare luogo e data e farla girare nelle classi. Una provocazione bella e buona!

Ora, siccome l'amica del cuore Vanessa ha detto che fa caldo, anche a Clarissa tocca aver caldo, e levarsi come minimo il cappuccio: ahi.

Lei pure, a suo modo, è una mutante. Non è brutta, no, non veramente: solo inguardabile, e lo sa. Ed ora è nervosa. È nervosa perché ha i brufoli. E ha i brufoli perché è nervosa. Chi può interrompere il circolo vizioso? Chi può impedirle di osservare la sua pelle, sottoporla a un micidiale cocktail di prodotti per l'igiene, massaggiarla compulsivamente, strizzarla, strizzare le strizzate, seguire diete sballate, interromperle con disastrosi abusi alimentari? Chiunque le passi vicino può distogliere lo sguardo, ma lei no: la sua pelle le è a portata di mano in ogni momento, ogni specchio è un'istigazione all'automolestia. Una camicia di forza?

Per ora si leva il burqa, ché alla sua amica non piace già più, e scopre anche lei una magliettina gialla, e tra la magliettina e il cinturone un budello roseo, concentrico: l'ombelico è da qualche parte lì in mezzo: il piercing, se c'è, non se la passa molto bene. Eppure Clarissa Colozza (La Cozza, per gli amici più fidati) ama il suo pancino: è la cosa più rosea gommosa e liscia che ha. Le lebbra bianca non ha ancora raggiunto il punto vita. Si massaggia teneramente e, interrogata, risponde.

"Sì, il burqa è un modo per protestare contro la circolare del preside, che vuole toglierci la libertà di vestirci come vogliamo, di apparire come siamo. Io credo che i vestiti facciano parte dell'identità di una persona, cioè, se scelgo di mostrare l'ombelico a scuola mica scandalizzo nessuno".

Questo è quanto ha da dirvi Clarissa.
E voi magari le credete.

Passiamo ora al prof. Esso, che stamattina già si è alzato male. Il sabato lavorativo non si addice al prof. progressista: in più, la prospettiva di imbattersi alle nove del mattino nell'ombelico nudo della Cozza gli ha chiuso la bocca dello stomaco a metà colazione.
"E dire", pensa lui, "che la ragazza avrebbe anche un suo stile. Certe acconciature… i golfini che portava l'anno scorso… la Bellei ha copiato un sacco da lei. Eppure…"
Sull'autobus Esso continua a riflettere sull'apparente mistero: ogni anno, 'ste ragazzine si scoprono un po' di più, e lo eccitano un po' di meno. Meglio così, però la cosa è triste, ti dà proprio l'impressione di invecchiare. "Quand'è l'ultima volta che mi sono eccitato per una ragazzina? vediamo…"
Poi gli viene in mente un film, non si ricorda neanche il titolo, ma inglese. Roba da ggiovani – era rimasto sulle poltrone in fondo per paura di imbattersi in qualche alunno suo. Il protagonista, appena disintossicato dall'eroina, andava in discoteca e si faceva immediatamente agganciare da una ragazza, che se lo portava in casa. La ragazza non era niente di speciale, la situazione non era niente di speciale, la scena di sesso niente di niente di speciale. Ma poi -
- Al mattino, quando il protagonista si sveglia, ha una visione abbacinante: la ragazza si sta vestendo. Una gonna blu, una camicia azzurra, e… forse persino una cravatta. Un'uniforme! L'uniforme di una scuola britannica!
In quel momento, il protagonista realizza che è stato sedotto da una minorenne.
E il prof Randolla, appeso al trespolo dell'autobus, ripensandoci ha un timido accenno d'erezione.

Ora che è arrivato sul luogo di lavoro, e ha assistito scuotendo la testa alla manifestazione finto-talebana, se gli mettete il microfono davanti vi dichiarerà:
"Guardate, io mi considero un progressista, ma stavolta mi sento assolutamente dalla parte del mio preside. La libertà non consiste nello scoprire un centimetro in più di pelle, come ritengono questi studenti. Sono loro piuttosto a essere schiavi di una moda sempre più esigente. Qui rischiamo di creare un nuovo tipo di emarginazione, non più sociale, ma estetica: chi non entra in una camicetta, chi non si può permettere di mostrare l'ombelico, resta fuori dal gruppo. Io, fosse per me, re-introdurrei le uniformi, come in Inghilterra. Le ragazze… e i ragazzi, anche i ragazzi, devono capire che a scuola sono tutti uguali, non c'è il ricco e il povero, e nemmeno il bello o il brutto. C'è solo chi si impegna e chi no. Essere uguali davanti a chi vi giudica: questo è il vero senso della libertà".

E questo è quanto ha da dirvi il prof. Esso.
E magari voi credete pure a lui.

FINE


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"Un... 'timido accenno di erezione', professore? Chiedo un racconto sull'amore carnale, e tutto quello che ottengo è un 'timido accenno di erezione'?" Questi sarebbe il mio spasimante che fa la ruota?"
"Mia signora, nella mia posizione quel timido accenno è già oltre i limiti della deontologia".
"Hai sbagliato turno: non si parla più di lavoro qui, ma di sesso. Voglio sperare che il tema sia più congeniale al tuo rivale, Bart Taddei... a proposito, Taddei, che notizie ci porti dalla palestra della mia residenza ormai deputata a lazzaretto?"
"Non buone, mia signora: nessun antibiotico sembra fare effetto sui malati, che..."
"Sì, beh, questo si era capito. Ma insomma in quando pensano di sgomberare? Dovevamo fare training autogeno. Non dovrebbero metterci molto ormai"...

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