Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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venerdì 31 maggio 2013

Però Giovanna io me la ricordo

Spiacente Milla, mi spiace Ingrid,
Jean Seberg è più Giovanna di tutte.
30 maggio - Santa Giovanna D'Arco (1412-1431). Era bellissima.

Santa Giovanna mi trova sempre nel momento peggiore - scadenze e pendenze d'ogni tipo, scrutini, rovesci temporaleschi, astratti furori che rubano sonno ed energia. Si arriva a fine anno scolastico sopravvivendo a tutti i buoni propositi caricati a settembre, e seppelliti uno alla volta lungo il sentiero verso il maggio atroce, il giugno torrido. Si parte giovani e pieni di voglia di cambiare il mondo e si arriva stanchi, sfibrati, senza prospettive, come doveva trovarsi il Bastardo d'Orléans nel 1429, mentre difendeva Orléans. Tutti i sogni cavallereschi di gioventù seppelliti in quel disastro che era stato la battaglia delle aringhe. Ormai la guerra, se non già perduta, era comunque un mestiere come un altro (con altissime possibilità di infortuni sul lavoro). Il Bastardo, che a dispetto del soprannome era un nobile di primo rango, l'unico Orléans rimasto in campo, tirava avanti perché aveva due riscatti da pagare, i fratellastri prigionieri degli inglesi. Ci mise 25 anni a saldarli, peggio di un mutuo sulla casa. Niente gloria in vista, le prospettive oscillavano tra la resa disonorevole e gli orrori di un assedio a oltranza, crepare di fame e peste mentre il tuo popolo ti maledice. Le provviste in città erano già razionate, il re Carlo lontano e pavido. Talmente pavido che non era nemmeno in senso stretto un re: non aveva le palle per sfidare gli inglesi mettendosi una corona in testa. E poi che altro? Niente, sta arrivando in città una matta, una contadina che parla con gli angeli, ha appena imparato a cavalcare e dice che la guerra la vincerà lei. Ma pure i matti, putain, non bastavano le epidemie? Ma quando finisce 'sto medioevo che ne ho piene le palle.

Finché non arriva Giovanna: ed è bellissima.


No, non abbiamo ritratti. Ma che fosse bella è chiaro. Puoi parlare anche con Michele Arcangelo, vederti ogni sera con Domineddio, ma se non sei un po' carina non ti segue nessuno: figurati gli eserciti della Francia intera. Doveva essere bella di una bellezza scostante, hai presente quelle ragazze talmente fuori standard che nessuno ci prova veramente: così come non ci provarono realmente i cavalieri che la stavano accompagnando, e che testimoniarono sulla sua correttezza al di sopra di ogni sospetto. Questa spaventevole bellezza, Giovanna doveva portarla con molta disinvoltura: in poche settimane aveva imparato a cavalcare, mentre teneva testa ai nobili della corte di Chinon e ai dotti di Potiers. Per esigenze di cavalcatura si era adattata a mettere i pantaloni, cosa mai vista se non in qualche bordello assai raffinato, di cui lei nella sua incontestabile innocenza nulla poteva sospettare. E poi che altro?

E poi era simpatica. Anche su questo, tutti concordano. Pronta al riso e alla battuta, di fronte a qualsiasi autorità. A Potiers un erudito, fra Seguin - immaginatevi un accademico davanti a una contadina che sostiene di parlare gli angeli, immaginatevelo - le aveva chiesto che lingua parlassero, questi angeli. Glielo aveva chiesto con uno spiccato accento limosino (Limoges è un po' la Campobasso della Francia meridionale, per capirci).

"Migliore della vostra".

E fu amore a prima battuta, anche per il professorone. Seguin avallò il parere della commissione, che considerava Giovanna utile alla causa regia, e anche ad anni di distanza non smise mai di parlarne e di scriverne tutto il bene che poteva scrivere il futuro ultrasettantenne decano della facoltà di Poitiers. Giovanna era incantevole, nell'autentico senso. Piacque a tutti quelli che ebbero l'opportunità di conoscerla un poco. Durò poco (e lo sapeva), ma finché durò i mercenari smisero di chiedere riscatti, i saccheggiatori di saccheggiare, i politici di mercanteggiare, i francesi di lamentarsi - riuscite a immaginarveli? Francesi che non si lamentano? Tutto dunque era possibile. Il Bastardo incontrò Giovanna, e all'improvviso non era più il mesto impresario di un teatrino al massacro. Era di nuovo un Capitano del Re; e anche il Re, quella mezzasega, se Giovanna insisteva una corona in testa poteva ben mettersela (continua sul Post...)

giovedì 30 maggio 2013

E poi?

Prima ti ignorano,
poi ti deridono,
poi ti combattono,
poi vinci!

E poi?

Poi non sai esattamente che fare;
poi combatti quelli che te lo dicono,
poi deridi quelli che non ti ascoltano più,
poi...
poi chissà, adesso vediamo.

mercoledì 29 maggio 2013

Il terremoto e le palle di Grillo

(Stasera, 29 maggio, alle 21 sono al Mattatoio di Carpi, un posto che ha rischiato di chiudere e invece è bello aperto, a leggere pezzi della Scossa, un libretto che ho scritto un anno fa per Chiarelettere).

Il 29 maggio del 2012 fu il giorno più lungo per i terremotati della bassa emiliana, molti dei quali stavano cercando di superare lo shock sperimentato una settimana prima ed erano tornati da poco sul posto di lavoro. Le interminabili scosse tra le nove e le tredici non furono un colpo micidiale soltanto per chiese e capannoni, ma anche per il morale di migliaia di persone. Quello che capimmo il 29 è che non si trattava semplicemente di un terremoto, ma di qualcosa di più lungo e perfido: uno sciame sismico, uno stillicidio di scosse e scossette che poteva rubarci il sonno e la tranquillità ancora per mesi e forse per anni. Proprio come lo sciame del 1570-1574, che aveva terrorizzato Ferrara per più di quattro anni. Quello che facemmo in molti la sera del 29 - piantare una tenda in cortile - nel 1571 lo aveva fatto il duca Alfonso nei giardini estensi. Nulla di nuovo, insomma: quello di Ferrara è uno degli eventi sismici che ci hanno lasciato una più ampia documentazione storica. I documenti, però, ogni tanto qualcuno dovrebbe fare la fatica di andarseli a leggere: sennò restano lettera morta e ci si convince - in barba alle mappe del rischio sismico - di vivere in terre misteriosamente sicure.

Il 29 maggio del 2012 Federica Salsi - consigliere comunale m5s a Bologna, non ancora caduta in disgrazia presso l'entourage di Grillo - segnalava sul suo profilo facebook il vero colpevole dei terremoti in Emilia: il fracking delle compagnie petrolifere in combutta con "Matto Morti". Fonte: un video complottista proveniente da un sito universalmente screditato. La Salsi lo aveva trovato su internet e non si era posta il problema di verificare se effettivamente ci fossero prove di un'attività invasiva come il fracking in Emilia, o in Italia, o in Europa. Fu senz'altro un'imprudenza, da parte di una persona ancora poco esperta di comunicazione. Diverso dovrebbe essere il discorso per Beppe Grillo, che inesperto non è, e che ha avuto tutto il tempo per approfondire il problema - se proprio ci tiene a parlarne. Anche perché nel frattempo è passato un anno e nessuno ancora ha capito o visto dove le compagnie petrolifere avrebbero estratto gas o altro nella bassa emiliana. Negli USA, dove il fracking si fa sul serio, di solito vengono evacuate intere contee.

Nelle dichiarazioni strappate dai giornalisti a Mirandola, e al comizio di Sestri Levante, Grillo ha giocato ancora una volta sull'equivoco tra fracking e stoccaggio di gas. Sono due cose molto diverse: la prima in effetti può provocare scosse - forse anche superiori al grado 5 magnitudo - il secondo no. In ogni caso nella bassa emiliana non risulta né l'una né l'altro (continua sull'Unita.it, H1t#181)

In ogni caso nella bassa emiliana non risulta né l’una né l’altro: è vero che a Rivara la Erg aveva cercato di creare un deposito di stoccaggio, e che il ministero aveva appena dato il via libera alla trivellazione di tre pozzi esplorativi: ma la Regione non aveva ancora dato il via libero definitivo (c’è comunque un’inchiesta in corso). Quanto al fracking, può darsi che in Italia qualche tentativo sia stato fatto: la fisica Maria Rita D’Orsogna, che Grillo citò un anno fa come fonte, ritiene di aver trovato documenti che dimostrano attività simili nelle province di Grosseto, Siena, Foggia e in Sardegna. Di Emilia non parla nemmeno lei.
Ne parlano però gli emiliani, nei bar: c’è chi sostiene persino di avere visto gli americani scappare via e lasciare un enorme accampamento incustodito. C’è chi dice che stanno scavando anche adesso: dove non si sa, ma scavano. Si raccontano tuttora storie enormi, abbiamo avuto un anno per gonfiarle: e Grillo ci ha fatto anche un po’ di campagna elettorale. Almeno ha il buon senso – o la faccia tosta – di ammettere che “non ci sono prove scientifiche”: è tutto un sentito dire, ma lui “ci gioca le palle” che è andata così. Quello che i giornalisti non vi possono dire – perché non ci sono le prove – ve lo dice lui, che di prove non ha mai bisogno. Se in Isvizzera una perforazione ha fatto il 3.6 richter, perché non può essere successo qualcosa del genere in Emilia? Grillo poi non è uno stupido, e probabilmente non gli è ignota l’enorme differenza su una scala logaritmica tra un 3.6 e il 5.9 della botta più forte di un anno fa: ma conosce anche, ahinoi, i suoi polli. Qualche anno fa ci raccontava della pallina che lavava più bianco senza detersivo; del pomodoro geneticamente modificato che secondo lui aveva ucciso 60 ragazzi; della “bufala” dell’Aids, dell’inutilità dei vaccini; di tutta l’energia che rivendeva all’Enel grazie allo strabiliante impianto fotovoltaico che si era messo in casa; tutte queste cose ci ha rivenduto un anno dopo l’altro, senza mai pagarne le conseguenze, perché dovrebbe temere ora per le sue palle o per la sua autorevolezza?
Tanto più che Grillo non fa che raccontarci qualcosa che vogliamo sentirci dire: non siamo una terra sismica. Lo siamo diventati a causa di uomini cattivi (probabilmente americani) e non lo saremo più quando la Gente vincerà le elezioni e li manderà tutti via. A quel punto non ci sarà più bisogno di fare esercitazioni serie e capannoni a regola d’arte, così come non ce n’era bisogno fino a qualche anno fa, perché noi non siamo davvero una terra sismica, è tutto un complotto. Anche i libri di Storia, i terremoti del 1570… è tutta roba vecchia, vecchia, sono tutti morti, morti. http://leonardo.blogspot.com

giovedì 23 maggio 2013

Da Sorrentino menu turistico


La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013)

Welcome, Willkommen, Bienvenue

Capiterà anche a voi da Cuneo di passare ogni tanto per Roma, e di chiedervi se è proprio Roma, e non uno scherzo che vi sta facendo qualcuno; un fondale per vecchi peplum, un parco a tema per turisti giapponesi. Magari la vera Roma è da qualche parte nascosta che se la gode. Questo spiegherebbe alcune cose: le cartacce intorno al Pantheon, l'insofferenza dei tassisti, e tutti quei pini marittimi, ma il mare dov'è? Anche quei poveretti che a 60 anni continuano ad andare alle feste e sbracciare sniffare e fare le smorfie: si chiama mondanità. Magari è tutta una sceneggiata anche quella, per turisti che vengono dall'altra parte del mondo e si aspettano il satyricon, si aspettano la decadenza psicofisico-morale, e chi siamo noi per negargliela.

Il sospetto è che anche Sorrentino, regista di grandi ambizioni, sia finito invischiato in una di queste operazioni per turisti. Per remixare la Dolce Vita nel 2013 ci vuole il coraggio di un suicida lanciato verso un muro con un'auto in corsa; oppure potrebbe semplicemente trattarsi del fatto che gli stranieri vogliono quella roba lì: sennò non applaudono, non premiano, non pagano. Un qualche produttore, mi piace immaginarmelo francese, deve essere stato abbastanza drastico: "Mi è piaciuto il Divo, non ci ho capito niente, ma la scena in cui i vecchi ballano la samba in salotto era formidable. Perché non ci fai un film tutto così, tutto di vecchi che ballano? Sui terrazzi romani. Col solito contorno di robe di cinema italiano: preti in altalena, artisti matti, animali dello zoo, la pizza, tutto quel genere di cose, e vedrai che a Cannes li avrai ai tuoi piedi. Come dici, la critica italiana non capirà? Cioè mi stai dicendo che in Italia avete anche la critica? Tu m'étonnes, non lo sapevo. E dà i voti anche alla pizza?"
(continua su +eventi!)

Gli stranieri. Ma perché non dovrebbero aver ragione loro? Non è meraviglioso che rischino l’infarto per un paesaggio a cui non abbiamo mai fatto caso, che vadano in sollucchero per un fondale di ruderi di templi romani e brandelli (finti) di vecchi film, uno sketch di un finto Moretti qui, una terrazzata di un finto Scola qua? e il film va avanti. Cioè, no, non è quel tipo di film che va avanti. Gli eroi di Sorrentino sono troppo spesso uomini finiti: tutto quello che potava ribaltare il loro destino è già alle spalle, e ora si tratta di girare in cerchio – ma senza carrelli circolari, sarebbero volgari. Sorrentino è barocco, preferisce l’ellisse. Procede accumulando cose, a volte gira al largo, altre volte si avvicina, si ferma, vorrebbe mettere in bocca al suo Jep Gambardella una battuta memorabile, purtroppo non sempre la scrittura lo assiste. Ed è un peccato. Per esempio: “I nostri trenini sono i più belli di Roma perché non vanno da nessuna parte”. I trenini delle altre feste invece dove andranno, chi lo sa. “Lo vuole sapere perché mangio solo radici?” Meglio di no, sorella, che se mi dice una banalità poi ci resto male. A sorreggere Sorrentino è il solito Toni Servillo, una meraviglia per occhi e orecchie: non ci si stanca mai di guardarlo ammiccare, di sentirlo strascicare il suo amabile accento che rende gradevole ogni resistibile battuta: se il film scorre liscio per più di due ore è tutto merito suo. E nel complesso hanno ragione gli stranieri, non è un brutto film.

È divertente: in un paio di occasioni ti strappa proprio la risata. È chiassoso, ogni tanto quelli che guardavano Fast and Furious 6 nella sala di fianco venivano a lamentarsi. È commovente in un modo quasi volgare (le lacrime sono volgari, dice Jep prima di sciogliersi). Ci sono tante figure davvero grottesche, tanti fondali davvero suggestivi, che solo gli italiani possono snobbare: trovalo un film francese o inglese o diversamente europeo che ti sappia mostrare la decadenza così. È il nostro core business la decadenza, è la cosa che sappiamo meglio fare in assoluto – o forse la cosa che ci sanno copiare peggio in assoluto. La pizza la sanno fare anche a Shangai, ormai. E tra vent’anni anche a Shangai magari sapranno anche fare film così, milioni di film di anziani cinesi che ballano e tirano la coca e a 65 anni non sanno che fare della loro vita. Ma se fino a quel momento restiamo gli unici a cui questa roba viene ancora credibile, perché non approfittarne? Hai ragione tu Sorrentino, scusaci. Lasciaci perdere, siamo tutti incazzati perché quando arrivano i turisti poi i prezzi nei locali si alzano. Gira pure la tua pizza e non ti curare di noi, che come la giri tu non la gira ancora nessuno.

La grande bellezza è al cinema Fiamma di Cuneo alle 21.10. Buona visione!

mercoledì 22 maggio 2013

No, we could not get much higher

Lo spiraglio

Non è mai sembrato un giovane, l'amavo anche per ciò.
Dell'infanzia ho ricordi confusi, come tutti. L'intro di Light My Fire potrei averla ascoltata per la prima volta sul divano, infilata a forza in un jingle pubblicitario di un Best of the Doors, magari il primo dei quindicimila Best of the Doors che uscirono in seguito. Vorrei poter dire che mi sbalordì subito - non avevo mai ascoltato una serie di note così, con un timbro così stridulo e marziale insieme - ma ero piccolo, ogni cosa mi sbalordiva, e poi scomparve e per molti anni non ci pensai più. "Doors" tornò a essere un adesivo sui serbatoi dei motorini, di cui apprezzare la grafica essenziale.

La prima volta che ascoltai Light My Fire ero a letto. Sentii l'intro e mi alzai in piedi sul letto. Quando Dylan racconta che gli Animals lo fecero saltare dalla sedia io ci credo; mi successe qualcosa del genere, se fossi stato su una sedia mi sarei potuto far male. Forse rivivevo già un ricordo di me bambino sul divano: forse la musica è tutto un sovrapporsi di ricordi e oblii futili che diventano importanti, perché? boh, in mancanza di meglio. Avevo quattordici anni e avevo appena comprato la cassettina del primo album dei Doors. Già al primo ascolto i pezzi mi sembravano tutti vividi e diversi l'uno dall'altro - questo è sempre stato per me un parametro importante, se i pezzi sono diversi l'uno dall'altro secondo me il disco è buono - ma uniti dalla voce di quell'organo unico, che Manzarek poi accantonò perché i tasti di plastica si rompevano troppo facilmente, maledetta plastica. Dopo quattro canzoni avrei dovuto comunque essermi assuefatto, e invece l'intro di Light My Fire mi colpì forte dietro la schiena, un ricordo ancestrale e insieme una promessa di delizie future; non lo sapevo ma le Porte si erano appena appena socchiuse per farmi vedere Coltrane e Bach, sovrapposti, per un attimo. Un tonfo alla grancassa, come lo sfregamento di un cerino, e poi quelle note come una fiamma che divampa all'improvviso.

Light My Fire fu la prima canzone che feci suonare a un juke box, nella Sala Giochi del Bronx - il Bronx era l'Istituto Professionale, erano ovviamente gli studenti a ribattezzarlo così - una fiumana di giacche di jeans che si riversava all'una verso l'Autostazione, con qualche chiodo di pelle che galleggiava nell'azzurro del denim - un giorno entrai nella loro Sala Giochi, andai al juke box e misi Light My Fire, la versione di sette minuti. Mi sembrò un gesto coraggioso, dadaista e punk. Il paesaggio musicale non era indulgente ed eterogeneo come adesso, potevi vivere una vita intera ascoltando soltanto glam da classifica, Sanremo e gli Iron Maiden per chi era assordato dai dubbi sulla propria virilità. Per quelle orecchie offese dagli anni Ottanta, i veri Ottanta di chi ci è vissuto, si è sorbito tanta merda e ci si è strizzato tanti brufoli, Light My Fire suonava di un altro pianeta. O mettevi a fuoco Light My Fire o mettevi a fuoco i Bon Jovi, non riuscivi a fare stare le due cose insieme nel cervello. Beccatevi la vera musica, stronzi. Accendetevi.

Ci misi ancora qualche anno a capire veramente che note stesse facendo. Alla fine la incisi rallentata, con i rudimentali strumenti a mia disposizione, e la riascoltai a ripetizione finché non mi parve di riuscirla a suonare. Non ne vado fiero, non l'avevo mai fatto; mi facevo punto di onore di non aver mai studiato un solo pezzo di musica - ero molto stupido. Ma quando seppi suonare l'intro di Light My Fire ne fui felice come un pappagallino, e di lì per alcuni anni a nessun organo lasciato incustodito in nessuna chiesa del circondario fu risparmiato il sacrilegio di intonare l'inno di Manzarek. Così Bach tornava a casa, dalla porta della sacrestia.

Poi sono diventato più serio e per anni non ho più ascoltato i Doors, che sembrano tagliati su misura per essere ascoltati da ragazzini e quindi liquidati. Pretenziosi e pop, teatrali, con quel sex simbol da birreria e tutta quella scadentissima poesia da ginnasio - i nostri Baudelaire, nessun adulto si rilegge Baudelaire, se non l'hai fatto prima dei 18 lascia perdere. Ogni tanto un sussulto, il film di Oliver Stone o una campagna promozionale per l'ennesimo disco sempre con gli stessi pezzi dentro. E ogni volta un'osservazione: ma come suonano ancora freschi, i Doors. Contro ogni aspettativa. Con quel cantante improbabile e ingestibile, e tutti quegli incidenti di percorso - azzeccavano un disco ogni tre - centinaia di canzoni inutili, eppure quanto restano ascoltabili i Doors. Nel frattempo ti sei fatto una cultura a tutto tondo, sai che in quella zona c'era un sacco di roba magari più ispirata e più seria, senza guitti e baracconate. Ma i pezzi dei Jefferson Airplane o degli Spirit o dei Love non hai veramente voglia di riascoltarli quanto quelli dei Doors. E l'intro di Light My Fire rimane lì, la promessa di una musica nuova intricata e meravigliosa che Manzarek non seppe mantenere - alle radio volevano pezzi più brevi, ma Jim durante gli assoli lunghi si annoiava, diventava pericoloso. Finirono a suonare blues lenti, il cimitero della creatività - ma sempre meglio del Père-Lachaise.

Come ha osservato ieri Giancarlo Frigieri, la carriera di un musicista pop è qualcosa di davvero avvilente, se non muori a 27 anni. È un'arte talmente fortuita che chiunque la pratica non ha a disposizione che quattro o cinque anni per sparare tutte le cartucce: il resto è mestiere. Alcuni sanno reinventarsi, ma anche lì servono tragedie o botte di culo incredibili. Tutti gli altri di solito passano la vita a suonare e risuonare dal vivo le canzoni che hanno scritto in fretta e per sbaglio quando avevano vent'anni. Quelli che si evolvono, che continuano a far dischi e sperimentare cose, sono i più sfortunati: quel che il pubblico continuerà a voler da loro saranno i pezzi che hanno scritto da giovani e stupidi, quando le note uscivano per caso. Anche Manzarek ci mise un poco ad abituarsi all'idea, poi si rassegnò all'onesta carriera di coverista di sé stesso. Ci speculò anche, con operazioni discutibili come An American Prayer. Come musicista probabilmente continuò a evolversi. Può anche darsi che da qualche parte nei cento dischi che incise ci sia un pezzo che mantiene la promessa di Light My Fire: per ora è ben nascosto. Le Porte restano per lo più chiuse, solo ogni tanto trapela uno spiraglio che ci illude di aver sentito qualcosa, chissà cosa: e il resto del tempo passa nel tentativo di ricordare, di ritornare su quel divano o su quel letto e sentire di nuovo quel brivido. Nel frattempo studiamo, acceleriamo, rallentiamo, impariamo; ma la porta non si apre, non è detto che si apra mai più.

martedì 21 maggio 2013

Il MoVimento Irresponsabile Italiano

"Il MoVimento 5 Stelle non è un partito, non intende diventarlo e non può essere costretto a farlo". Così Grillo sul suo blog. L'indignazione è tale che non gli consente di spiegarsi meglio: cosa significa diventare un partito? In che modo il disegno di legge Finocchiaro-Zanda lo obbligherebbe?

Se si tratta di depositare uno statuto, Grillo ci ha già pensato da qualche mese, depositandone uno a Camera e Senato, alla chetichella, lo scorso 18 dicembre. Quando l'Huffington Post ci mise le mani, in piena campagna elettorale, molti gridarono al complotto: Grillo aveva davvero intestato il Movimento a sé stesso e al nipote Enrico, senza informare i seguaci? La realtà era molto più banale: per presentare le liste è necessario depositare uno Statuto, e quindi Grillo ne butto giù uno, in fretta e furia. Non è dunque una questione di forma: uno statuto già c'è e si può benissimo modificare. Il problema non è il passaggio tra "movimento" e "partito": nessuno chiede al M5S di diventare un partito - ammesso che sia definibile la differenza. Il disegno di legge però prevede che il M5S si doti di una personalità giuridica, il che equivale a un'assunzione di responsabilità che nessuno al M5S può accollarsi. Men che meno Beppe Grillo, che non è stato eletto da nessuno: eppure lo statuto depositato lo riconosce titolare del marchio e presidente dell'"Associazione Movimento Cinque Stelle". La responsabilità di quello che l'Associazione dice o fa potrebbe essere sua, ma la responsabilità è la cosa a cui Beppe Grillo tiene meno in assoluto.

Fin qui Grillo ha sempre nascosto la mano dopo ogni sassata (continua sull'Unita.it, H1t#180).

Ha dichiarato davvero alla stampa estera che l’Italia avrebbe dovuto uscire dall’euro? Sì, ma non significa che il M5S sia contro l’Euro: decideranno gli italiani. Con un referendum, ovvio. Qual è la posizione del M5S sui diritti di cittadinanza? Non si sa, decideranno i cittadini. Nel frattempo il M5S non può considerarsi responsabile se sul blog di Beppe Grillo esce un pezzo razzista, che strumentalizza un orribile fatto di cronaca per demonizzare lo ius soli. Probabilmente neanche Grillo ne è responsabile, non lo è nessuno. Sono pezzi che si scrivono da soli, e poi se la gente li commenta non è mica colpa di Grillo o del suo movimento – in ogni caso, decide sempre il popolo. Con una consultazione, magari on line. Purtroppo a queste consultazioni partecipano in pochi, anche rispetto agli elettori m5s, ma questo accade a causa dei malvagi hacker, eccetera.
Grillo minaccia di non presentare il M5S alle prossime elezioni, se il disegno di legge passerà. Mi piacerebbe che almeno stavolta un esponente del M5S gli facesse presente che questo tipo di decisioni non dovrebbero spettare solo a lui: ci vorrebbe almeno una discussione, magari un bel referendum tra iscritti, eccetera. Altrimenti non resta che pensare che le cose stiano proprio come sono scritte nello statuto depositato pro forma il 18 dicembre: il Movimento è roba sua, il marchio è roba sua, e il fatto di presentarlo o no dipende solamente da lui. Si capisce che il ddl Finocchiaro-Zanda non gli piaccia: prevede consultazioni primarie per ogni candidatura, dal sindaco al presidente di regione. Persino il candidato m5s a un eventuale collegio uninominale dovrebbe essere espresso mediante primarie, e non digitali, non per scherzo: primarie vere. Personalmente non sono entusiasta all’idea  di imporre le primarie per legge, ma almeno non sono titolare di un marchio né di un movimento che fa il venti per cento e più. Grillo sì, e non mi stupisce che veda il ddl come fumo negli occhi. Con una regolamentazione del genere probabilmente Favia & co. l’estate scorsa gli avrebbero portato via il M5S bolognese. Tutti immaginiamo che prima o poi il M5S dovrà affrancarsi dal suo creatore, ma magari il creatore trova che sia un po’ troppo presto.
C’è un’altra possibilità: magari è veramente stanco. Magari non è un bluff, e davvero non intende ripresentare il suo marchio. Non cascherà il mondo: i delusi e gli arrabbiati che hanno votato M5S troveranno un altro marchio e un altro imbonitore. Per quel che ha fatto fin qui – salvare Berlusconi e spostare il Pd nel vecchio alveo della Democrazia Cristiana – è difficile immaginare che il prossimo sia peggio. http://leonardo.blogspot.com

lunedì 20 maggio 2013

Noi emiliani siamo razzisti (tranne te)

Il 29 maggio da noi non sarà esattamente un giorno come gli altri. Mercoledì 29 maggio alle 21 sono al Mattatoio, un posto che ha rischiato di chiudere e invece è bello aperto, a leggere pezzi della Scossa, un libretto che ho scritto un anno fa per Chiarelettere. È un testo che racconta alcune cose sul terremoto in Emilia, dalla postazione in cui era forse più difficile capirci qualcosa, cioè il bordo del terremoto. È stato scritto tra il 29/5 e il 29/6, in un mese difficile, in una situazione particolare. Oggi lo rifarei completamente diverso - ma oggi non tremo a ogni vibrazione dei vetri, per esempio. 

Il libro è ancora in vendita - è per una buona causa. Ne infilo un capitolo qui sotto un po' stagliuzzato, giusto per dare un'idea:

 Noi siamo razzisti (tranne te)

«Capo!»
«Eh?»

Mettiamo che capiti a voi, di perdere temporaneamente la casa, di ritrovarvi nella mensa di un campo profughi, con un buco nel cuore ma anche, enorme, nello stomaco. Però non siete del posto – magari vivete e lavorate lì da anni, però non vi considerano del posto, oh! sono fatti così. E hanno gusti strani, per esempio mangiano carne di topo. Che bisogna dire non è come il topo nostro, schifoso, il ratto di fogna, quello fa ribrezzo anche a loro, no: siccome sono millenni - che ne mangiano, hanno selezionato una razza di roditori d’allevamento placidi, non hanno neanche più i denti, e poi li macellano, e poi li mangiano – però voi non ne volete sapere, non ne avete neanche mai assaggiato uno.

Ve l’hanno detto tutti che non sapete cosa vi perdete, che il roditore stagionato di quella zona è un’eccellenza assoluta, un presidio slow food. Vi hanno spiegato che siete vittima di un condizionamento culturale, che non è colpa vostra poverini se nella vostra terra d’origine circolavano superstizioni e infamie contro i roditori, che in fin dei conti è carne, ed è buona, e insomma, che rompipalle che siete a non volerla mangiare. Comunque, proprio perché sono ospitali, e non si dimenticano le buone maniere neanche nella calamità naturale, vi hanno fatto il pentolone a parte con il ragù senza topo, va bene?

E voi siete contenti, perché sarebbe lunga cercare di spiegare che condizionamento o no, slow food o no, voi proprio il topo non riuscireste a mandarlo giù, nemmeno nel terremoto e nella carestia. Quindi siete lì, state aspettando che vi scodellino il piatto. Quando fate caso a un particolare. La volontaria che passa con le razioni ha un cucchiaio di legno solo. Uno solo. Per voi e per i mangiatopi. E adesso sta puntando verso di voi.

Questa storia è successa davvero, in una tendopoli. Il topo in realtà era un maiale. Il cucchiaio era un cucchiaio. Voi non eravate voi, ma alcuni musulmani che del maiale avevano orrore. Il giorno dopo circolava – anche a mezzo volantini – un invito a liberarsi di questi stranieri ingrati e schifiltosi.

«UN MIRANDOLESE IMPEGNATO NEI SOCCORSI POST TERREMOTO SCRIVE
Averli accolti, aver dato loro spazi, averli rispettati nelle loro tradizioni fino al punto di calpestare le nostre, averli istruiti sui loro diritti senza mai chiedere il minimo dovere, vederli comodamente seduti a tutte le ore nei bar, non vederli mai salutare o cercare un contatto. E vederli ora nelle tendopoli chiedere la carne tagliata in un certo modo, chiedere il cibo e poi gettarlo perché non è loro gradito, guardarli ridere mentre ci si affanna per tirare su tende e strutture di accoglienza, guardarli mentre si rifiutano sdegnati di aiutare, guardali mentre fumano ridono e scherzano... guardarli. È il fallimento dell’integrazione, i nodi sono venuti al pettine. Basta.
MANDIAMOLI TUTTI FUORI DAL NOSTRO PAESE!»

La cosa che mi ha fatto più male di questo volantino è la punteggiatura. Perché i contenuti più o meno li conoscevo, potevo immaginarmeli. Questo volantino, non lo avessi ritrovato in rete, avrei potuto riscriverlo da solo, le chiacchiere da bar alla fine sono sempre le stesse. Ma la punteggiatura. Non avevo mai visto un volantino razzista con una punteggiatura così efficace. Dietro c’è qualcuno che ha letto, che ha studiato. Certo, questo non lo ha smosso di un centimetro dalla convinzione di vivere nella migliore delle Emilie possibili, un luogo dove tutti vogliono venire, al punto che c’è da tirarli fuori con la pala.
Nello stesso giorno in cui girava questo volantino, un sacco di residenti extracomunitari al posto di blocco mi salutavano col trolley: se ne stavano andando da soli, senza aspettare il fallimento dell’integrazione. Un pachistano dell’età di mio padre mi spiegò che andava in Danimarca, aveva degli amici là. Gli feci i complimenti, la Danimarca per quel che sapevo era non sismica. Mio padre in Danimarca non c’è mai stato. Neanch’io, ora che ci penso, ci sono mai stato. Neanche il tizio del volantino, magari.

Chiedo scusa ai mirandolesi, di cui qui si fa il nome, solo per associarli all’iniziativa di un tizio razzista che ha scritto un volantino. Però era veramente un testo interessante. Non solo per quella cosa del «cibo non gradito» – che davvero vien da ridere, se avete mai incontrato un modenese all’estero. Non è difficile, basta andare nei ristoranti modenesi. Li troverete là alle ore pasti, che discettano di ripieno di tortellini e si fanno riportare il carrello dei bolliti. Ma il volantino non parla di questo. Parla soprattutto dell’invidia. Guardateli, dice, questi stranieri. Come fumano ridono e scherzano. Guardateli. Cosa c’è da ridere? Cosa c’è da scherzare?

C’è che loro hanno perso meno di noi, tutto qui. Una casa? Ne troveranno un’altra. Un lavoro? Vabbe', di sicuro non era il migliore lavoro sulla terra. Ci sarà qualche altra terra dove andare, qualche altra opportunità. Tanto il cordone ombelicale lo hanno reciso da un pezzo. È a noi che duole, a loro no. «MANDIAMOLI TUTTI FUORI.» Ma se ne stavano già andando. Ho insegnato in anni in cui ogni classe ne aveva quattro o cinque, e già sembrava un’invasione. Da qualche anno a questa parte stava calando il coefficiente di cognomi strani, anche se non calava il disagio. So di cinesi che sono tornati in Cina. Turchi in Turchia. Ingrati fino all’ultimo, non aspettano nemmeno che li cacciamo coi forconi. Tipico.

Noi emiliani siamo razzisti. Noi emiliani però si era detto che non esistevamo, e quindi tolgo la parola e la frase rimane così: noi siamo razzisti. No, tu che leggi senz’altro no, ma dico in generale. Ci sono eccezioni, ma comunque siamo più razzisti di quanto dovrebbe essere consentito, e lo si vede da centinaia di cose – potrei parlartene per ore, ma diciamo che ti fidi, va bene? Siamo razzisti perché proprio in questa stagione cominciamo ad andare a scuola a chiedere che i nostri figli siano inseriti in una certa classe e non in un’altra, e perché? Che differenza c’è?

Tante volte la differenza la fanno gli stranieri. Che poi stranieri non sono, la stragrande maggioranza è nata nell’ospedale a cinquecento metri dalla scuola, però sono figli di stranieri e quindi per noi sono stranieri anche loro. Il razzismo in fin dei conti è tutto qui.

Noi siamo razzisti perché abbiamo accolto molti stranieri, sembra un controsenso ma è andata così. Forse fino a un certo punto contavamo su una nostra ospitalità, una nostra disponibilità, che alla prova dei fatti non si è mostrata all’altezza. Certo, se ci fossimo guardati un po’ meglio ce ne saremmo resi conto, che non eravamo così ospitali come credevamo di essere. Sarebbe bastato vedere come parlavamo dei «marocchini», che fino agli anni Ottanta non erano quelli che venivano dal Marocco, ma da Caserta in giù, coi quali lavoravamo nelle fabbriche e nei cantieri, ma senza legare più di tanto.

Nel frattempo magari tendevamo a idealizzare minoranze che ancora non avevamo imparato a ospitare. Poi improvvisamente da un anno all’altro sono arrivati, a ondate, e ci hanno messo paura. C’è chi davvero parla di invasione, e ci crede: basterebbe un occhio alle statistiche per rendersi conto che non è verosimile. Ma la gente non ha voglia di guardare i fogli con i numeri. Esce al pomeriggio e in certi quartieri trova in giro solo loro. Si sono presi le palazzine brutte che gli italiani stavano mollando: a un certo punto a molti padroni di casa conveniva affittare soltanto a loro, creavano meno problemi e il mensile continuava a restare alto, perché i nuclei famigliari sono sempre numerosi. Ed è vero che tendono a farsi vedere in giro più degli italiani: forse perché hanno meno spazio in casa.

«Capo, dico a te.»
«Sì?»

Quella sera mi giravano un poco, vuoi perché il turno di notte è quel che è, vuoi perché non ha senso mettersi lì impalati per otto ore davanti a un accesso, se poi a cinquanta metri ce n’è un altro e non lo controlla nessuno. Far la guardia ha un senso, ma il picchetto a un recinto aperto, grazie, no. E allora ho detto al mio compagno: ma in via Narsete c’è qualcuno? Non lo sapeva. Scusa, stiamo qui a rompere le palle alle suore che vogliono andare in Sant’Antonio, e intanto in via Narsete può entrare chi vuole? E l’ambulatorio che hanno svaligiato ieri, ricordami, in che via era? Narsete. Ah, ecco. Senti, hai detto che sei qua fino all’una? Allora è inutile che stiamo in due. Io mi vado a mettere in via Narsete.

È un passaggio pedonale, senza lampioni; la sera diventa buio subito. Ma non ci si sente soli, nel parchetto lì davanti si sono accampate due famiglie di africani, quelli che hanno un tono di voce sempre alto come se litigassero, anche se non litigano mai. Ma a noi razzisti sembra così. Dal modo in cui articolano l’inglese potrebbero essere nigeriani o ghanesi. Tutti piuttosto alti di statura. Sto scrivendo un messaggino quando mi sento chiamare

«Capo!»
«Eh?»

E dall’oscurità mi viene incontro un africano di due metri e venti.

«Ciao, fai la guardia?»
«Eh, sì.»
«Ma qui non c’è mai nessuno, capo.» Me lo dice con un tono che interpreto come di rimprovero.
«Lo so, adesso però ci sono io.»
Mi guarda con un’espressione che interpreto come di scetticismo: ah, beh, capo, se ci sei tu siamo a posto. In effetti, col mio bel casco giallo, non gli arrivo al naso.
«Qui può passare un sacco di gente.»
«Eh lo so, si fa quel che può.»
«Capo, domani voglio venire io.»
«Tu?»
«Io li conosco tutti quelli che abitano qui, io sto in via IV novembre ma l’anno scorso stavo lì in via Narsete, li conosco tutti. E loro conoscono me, faccio passare solo chi ci abita.»
«Beh, guarda... ti do il numero della protezione civile, così se hanno bisogno di aiuto...»
«Ecco, grazie capo.»

In quel momento ti si accende come una lampadina. Cosa stai facendo? Sì, lo sai, sarebbe una sentinella perfetta. Alto come una torre, nero come la notte; conosce tutti, e tutti lo conoscono. Però.
Ti ricordi dove abitiamo?
Te lo immagini mentre chiede la carta d’identità alla tizia che ha la gioielleria all’angolo?
Vuoi metterlo nei guai?
Vuoi costringere qualcun altro a dirgli di no, vuoi scaricare su qualcun altro quella piccola dose di razzismo che ci stiamo dividendo in parti uguali?

«Senti, scusa... io adesso il numero te lo do... ma tu... sei sicuro?»
«Certo capo.»
«Si tratta di stare qui, e fare entrare soltanto i residenti...».
«Li conosco tutti.»
«Ma anche, per dire, se non ne conoscessi uno, dovresti chieder loro i documenti, cioè...».

Capo, mi stai chiedendo se so leggere?

«Vabbe’, comunque il numero è questo.»

Noi di qua siamo razzisti, ma non lo saremo per sempre. O ci mescoleremo – ci stiamo già mescolando, però ci vuole tempo – o se ne andranno loro, in cerca di meglio. Di lavoro, soprattutto: da noi l’offerta stagnava già da un paio di anni, e molte facce scure in giro per i quartieri erano semplicemente in cassa integrazione.

In certi casi il terremoto dev’essere stato la goccia che fa traboccare il vaso, o la strattonata di un conoscente che ti dice: dove stai buttando la tua vita? In quel posto di zanzare e sciami sismici? Ma lo sai che qui da noi in India / Cina / Turchia il Pil cresce che è un piacere? Si dice, non so se sia vero, che il governo marocchino abbia offerto a tutti i residenti nei comuni terremotati il biglietto aereo per rientrare. A volte conviene, tenere una madrepatria lontana da qualche parte. Qualcuno che per male che vada ti può pagare un biglietto. In realtà possiamo andarcene anche noi, quando vogliamo. Da qualche parte dove saremo anche noi un’etichetta, gli «italiani», che vuol dire tante cose e quasi nessuna che somigli a noi davvero. E nessuno ci offrirà di fare la sentinella: senza offesa ma... non sei adatto.  

venerdì 17 maggio 2013

Pimp My Francis Scott Fitzgerald


Ciao, sono tornato. Cioè, non me ne sono mai
veramente andato via
Il grande Gatsby 3d (Baz Luhrmann, 2013)

Giulietta Capuleti, se proprio volete la verità, non si è mica uccisa. Nel director's cut inedito ha dato retta ai genitori, si è sposata il suo pezzo grosso di Verona Beach e adesso ha tre bambini, un conto offshore e una terza abbondante mastoplatica - sta già cominciando a stirarsi le rughe. Anche Romeo non si è ucciso, ha solo messo un po' di chili. Ha fatto la guerra, il giro del mondo in barca a vela, un semestre a Oxford e tante altre cose, non tutte legali. Ma è ancora lui, è il Romeo di Baz Luhrmann: si innamora al volo, e ogni volta è per sempre. Tanto carino e ombroso, eppur gioviale e alla mano, però ogni tanto gli scappa la pazienza e capisci che potrebbe ammazzare qualcuno. Ha sicuramente ammazzato qualcuno. Probabilmente il modo migliore per apprezzare il Grande Gatsby 3D è prenderlo per il sequel di quel vecchio Romeo+Juliet che ci fece conoscere sia Luhrmann che Di Caprio. Eravamo tutti molto più giovani, tranne il testo di Shakespeare. Quello era già stato condito in tutte le salse, Bernstein ci aveva già musicato West Side Story, cosa ci si poteva aspettare di più? Lo abbiamo scoperto allora, cosa aspettarci da Luhrmann: più tutto. Il cielo stellato a Luhrmann non basta, lui nel firmamento come minimo ci vuole la nebulosa di Andromeda ingrandita un milione di volte. Non c'è un pedale che abbia mai premuto con cautela, lui sa solo schiacciare a tavoletta: più luce, più colore, più melodramma, più baraccone, più canzoni, più buffoneria, più divismo, ma anche più aderenza al testo. Luhrmann lo tradiva meno di Zeffirelli, con la sua Verona toscaneggiante e le sue calzamaglie improbabili. Perché in fondo poi cos'è Romeo e Giulietta se non una storia di tamarri che si sfottono fino alle estreme conseguenze, e allora forse è giusto affidarsi a Luhrmann che è il più tamarro di tutti. Non che Zeffirelli sia la damina inglese che vorrebbe essere, eh; ma Luhrmann è di più. Più grosso. Più luccicante, più rumoroso. Luhrmann è uno che ti pimpa di brutto, Baz, mi è piaciuto come hai pimpato Shakespeare, perché non ti cimenti con qualche capolavoro della letteratura americana del Novecento? Non tirarti indietro, Baz, pimpami Francis Scott Fitzgerald!

Il Grande Gatsby è un film che va visto in 3d, mai mi sarei immaginato di scrivere una cosa del genere. Ma forse non avevo mai visto un vero 3d. Quello di Luhrmann fa impallidire Iron Man: niente oggetti lanciati al pubblico, ma una girandola di fondali di cartone - all'inizio sembra un film di animazione - come un libro pop-up. Il Grande Gatsby 3d è, in effetti, un libro pop-up, come quelli che si comprano ai bambini che non sanno ancora leggere per stupirli con i personaggi di cartone che spuntano fuori dalla pagina appena la apri. Fitzgerald scrive: "automobile", Luhrmann te la fa spuntare dallo schermo, lucida come un giocattolino appena uscito dal negozio. Scrive "luce verde", e lui ti mostra la luce verde, cinque, sei, venticinque volte, nessun bambino analfabeta deve perdersi la pregnanza della metafora. Anche l'insegna con gli occhiali, si è capito cosa rappresentano gli occhiali? Volete che ve la mostri un'altra volta? Non c'è problema (continua su +eventi!) 

Non c'è problema, abbiamo due ore, due e mezzo. All'inizio più che a un film hai la sensazione di trovarti in un rebus, a ogni parola corrisponde la cosa, su un foglio che è la pagina bianca nella macchina da scrivere ma anche la proiezione google earth di New York 1922; e tu sei il cursore, Baz ti muove con la velocità della luce da West Egg alla Quinta Strada, investito da una pioggia di parole dattilografate. Tobey Maguire sembra la sagoma di cartone di sé stesso, le sequenze gli girano attorno come pagine sfogliate da un bambino che si esalta per i coriandoli, e i fuochi artificiali, e poi arriva Leonardo: e per l'occasione, Luhrmann riesce a rendere tamarra persino la Rapsodia in Blue. Perché sono tutti bravi a fare i tamarri con l'hip hop, ma provateci con Gershwin, provateci. Baz ce la fa. E Francis Scott Fitzgerald non vi sembrerà più lo stesso, in effetti ora che ci penso non me lo ricordo più, chi era esattamente questo Francis Scott Fitzgerald?

Baz una sua idea ce l'ha. Scordatevi tutto quello che avete imparato nella classe di letteratura. Scordatevi il libretto che leggevate al liceo per darvi un tono. Scrostate la superficie, le frasette ben tornite. Soprattutto dimenticatevi tutti i cataloghi sugli anni Venti messi assieme in seguito da stilisti e trovarobe, tutta roba che si è incrostata su un libro di scarso successo man mano che diventava un feticcio culturale e finiva nei programmi scolastici. Scordatevi i maglioncini di Redford e gli sbuffi di Mia Farrow, perché è a quello che pensate il più delle volte che fate finta di pensare a Scott Fitzgerald. E ogni volta scivolate senza accorgervene dal West all'East Egg perché è da là che vorreste venire, non dal quartiere dei truzzi midwest in odor di camorra. Ma guardate meglio: non vedete? Gatsby era un tamarro, e lo siete anche voi. Cosa c'è di più tamarro, arcaico e tribale del suo potlach per amore, cosa c'è di meno elegante e più scemo di caracollarsi a Manhattan in macchina nel solleone, chiudersi in una suite al Plaza e pretendere di comprarsi non solo il tuo amore, ma anche il tuo passato. Gatsby, Nick, Daisy, Tom, sono tutte falene impazzite del midwest che corrono verso le luci della città senza sapere come ci si comporta. Come il loro creatore, Scott di Saint Paul, Minnesota. Non esattamente quell'arbiter elegantiarum che col tempo ci siamo immaginati che fosse (e anche lui, del resto, all'inizio Gatsby lo aveva chiamato Trimalcione). Aveva gusti discutibili: vedi l'entusiasmo per la brutta copertina originale, che nelle edizioni anglosassoni è diventata un elemento paratestuale obbligatorio: tanto che l'idea che qualche editore la voglia sostituire con una copertina ispirata al film, magari una foto di Di Caprio, desta scandalo in molti lettori. Luhrmann se la ride: a vedere il suo baraccone anni Venti verranno tutti comunque. I bambini e gli analfabeti faranno "ooh" per tutto il primo tempo, con la gioia di chi si imbosca a una festa. Gli intellettuali noteranno la lungaggine della seconda parte, quando le munizioni a coriandoli sono tutte sparate e l'energia orgiastica cede il passo alla fatica di dover comunque raccontare una storia.

Ma ci terranno lo stesso a vederlo fino alla fine, per assicurarsi che il libro era meglio, proprio come i lettori dei fumetti di Iron Man che sedevano nella stessa poltrona, con gli stessi occhialini, una settimana prima. The Great Gatsby forse non vi piacerà, ma vi piacerete da soli mentre lo stroncherete. È una tamarrata galattica, è pimp my Scott Fitzgerald, è Baz Luhrmann in tutto il suo splendore di cartone, e Leonardo Di Caprio è la migliore sagoma che gli sia mai capitata tra le mani (ma anche Maguire e Carey Mulligan, citiamoli, sono cartonati perfetti).
 
Il Grande Gatsby 3d è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 19:50 e alle 22:40, e al Multisala Impero di Bra alle 21:30. La versione in 2d è presente in molti altre sale in provincia e persino a Cuneo, ma secondo me vale la pena di vederlo in 3d.



giovedì 16 maggio 2013

Delenda Cologno XIX

Mentre aspettiamo una sentenza - l'ennesima - ripetendoci che non è importante, che non cambia nulla, che ci sarà sempre un grado ulteriore o un lodo o qualcos'altro, e che poi la via giudiziaria non è che ci interessi così tanto, non è coi processi che si vincono le battaglie, eccetera... mentre aspettiamo di sapere se Berlusconi farà cadere il governo o no, a questo punto senza nemmeno capire se preferiremmo di no... può essere utile ripassare cos'è l'antiberlusconismo. Perché siamo antiberlusconiani, lo siamo sempre stati, però ultimamente il concetto si è un po' aggrovigliato. La confusione è così grande che abbiamo sentito molti osservatori autorevoli accusare Bersani di aver perso le elezioni a causa del suo antiberlusconismo; e tutto questo mentre un movimento nato dall'antiberlusconismo viscerale e manettaro, un movimento che ha tra le sue parole d'ordine "psiconano" e "al Tappone" e si batte per l'ineleggibilità di B. passava dallo zero al venticinque per cento dei suffragi. E allora? E allora forse esistono tanti antiberlusconismi diversi, e non c'è dubbio che quello di Bersani non sia risultato il vincente.

Esiste un antiberlusconismo morale, anche un po' moralista, che partendo da un assunto sotto sotto reazionario (la decadenza dei costumi, non ci sono più le lucciole, ecc.) prende la figura di Berlusconi e le addossa tutte le responsabilità addossabili. Quando non c'era lui l'Italia era in bianco e nero ma meno sboccata, meno pacchiana, eccetera eccetera (qui il morale vira verso l'estetico: l'altra sera, mentre su canale 5 ci spiegavano di nuovo che Ruby è una pecorella smarrita, su Rai YoYo la fatina della Buona Notte si presentava allo special sulla Festa della Mamma in borghese con tacco 12; non è mica colpa di Berlusconi, però... però certe cose ce le ha portate lui, e adesso non sappiamo più come gestircele, straripano dappertutto, anche in quelle zone che una volta presidiava il Mago Zurlì).

Esiste un antiberlusconismo giudiziario, che in effetti nasce più dalle pagine della cronaca giudiziaria che da quelle politiche; è un fenomeno un po' manettaro, ma almeno ha il pregio di restituire contorni reali al personaggio. Berlusconi può rappresentare tante cose della storia d'Italia, ma quando va alla sbarra è un cittadino come gli altri, che ha commesso alcuni reati. Fin qui sarebbe anche semplice. Il problema è quando ci si sposta sul piano politico. Gli antiberlusconisti giudiziari vagheggiano il giorno in cui un giudice cancellerà B. dalla politica italiana, con un clac di manette o un semplice colpo di martelletto; quel giorno però non arriva mai, e questo li snerva. I più informati probabilmente a questo punto sanno benissimo che non c'è legge sull'ineleggibilità o interdizione dai pubblici uffici che tenga: nessuna legge vieterebbe a B. di continuare a finanziare il suo partito, intestandolo a prestanome o membri della famiglia. A questo punto però l'antiberlusconismo giudiziario è forse prigioniero delle sue cerimonie, dell'attesa del martelletto fatale, della manetta che prima o poi scatterà. È abbastanza improbabile che succeda (se non altro vista l'età dell'imputato), ma nel frattempo l'antiberlusconismo giudiziario continua a vendere bene, in edicola e in libreria.

Esiste un antiberlusconismo agonistico, non mi viene in mente un altro aggettivo con cui definirlo: è l'antiberlusconismo di quelli che B. lo vogliono "battere alle elezioni": sottointeso, ad armi pari. In realtà si sottointende un'enormità... (continua sull'Unita.it, H1t#179).

 In realtà si sottointende un’enormità, perché B. non usa armi legali: ha a disposizione un patrimonio immenso, accumulato con metodi discutibili, come per esempio la corruzione (possiamo dirlo ormai, ci sono le sentenze). Dispone di una corazzata mediatica un po’ ammaccata ma ancora senza rivali per potenza di fuoco in Italia, e lo si è visto in campagna elettorale: B. non è riuscito a vincere, ma riesce ancora ad evitare che vinca qualcun altro. Cosa significa “batterlo alle elezioni”? Con che risorse, visto che lui ne ha di enormi? Con che televisioni? Non si sa, non si è mai capito. Gli antiberlusconiani agonistici sono di solito tipi sportivi, pronti a gettare il cuore oltre all’ostacolo: prima o poi, lasciano intendere, gli italiani tiferanno per loro, ammireranno la loro sportività, il fair play del galletto che sfida la faina al giro dell’aia. Finora son tutti finiti male (Occhetto, Rutelli, Veltroni), però magari questa volta chissà.
Esiste un antiberlusconismo politico, ben rappresentato in parlamento ma abbastanza minoritario nel Paese. Lo professa chi è convinto che Berlusconi, al di là di questa o quella sentenza, sia un vulnus per la democrazia italiana; vulnus però in latino significa ferita: qualcosa che non si rimuove, non si asporta, ma si deve in un qualche modo rimarginare. La politica dovrebbe quindi trovare una via per la riappacificazione tra gli antiberlusconiani e i milioni di persone che in B. hanno continuato a credere per tutto questo tempo, perché poi la politica consiste in questo: nel fare la pace. Sennò è guerra.
Esiste un altro antiberlusconismo, poco conosciuto, che appunto prevede una situazione di guerra civile. I pochi ma affezionati lettori del mio blog lo conoscono con l’espressione Delenda Cologno (Bomb Cologno per gli anglofili). Esso parte da un assunto che tutto sommato condividono tutti gli antiberlusconiani, e ha l’unico torto di trarne le estreme conclusioni: siccome B. è un vulnus per la democrazia, siccome è stato il protagonista non di questo o quel caso giudiziario, ma di una violazione sistematica della nostra costituzione; siccome questa violazione non è l’opera di un singolo uomo, ma di un’azienda che in vent’anni ha caparbiamente difeso una posizione di monopolio evidentemente illegale – non resta che requisire quest’azienda, espellendone la dirigenza. Un atto politico, non giudiziario; preso da leader politici, con il consenso dei loro elettori. Un simile consenso è tutt’altro che fantascienza: basta sommare i risultati elettorali di PD, Sel e M5S per rendersi conto che un fronte antiberlusconiano, in Italia, ci sarebbe. Purtroppo Beppe Grillo ha altre priorità (è molto più ossessionato dalla Rai che da Mediaset), e anche la dirigenza del PD non sembrava entusiasta. Insomma, non dovremmo parlarne più.
Ma io ne parlo ancora. Non sono un antiberlusconiano morale, non credo che sia colpa sua se anche la fatina della buona notte sta sui trampoli con un décolleté innaturale; non sono un manettaro, mi dispiace se in alcuni casi B. ha sfruttato la prostituzione ma non credo che sia questo il vero problema; non sono un antagonista, preferirei che nessun leader gareggiasse con lui in piacioneria o in fundraising o in qualsiasi altra categoria; non credo nella pacificazione, o meglio credo che sia inevitabile, non appena B. sarà in esilio e la sua azienda smontata e rivenduta a imprenditori onesti. Non penso che la mia prospettiva sia realistica, ma ho la sensazione che sia l’unica razionale: ora e sempre, delenda Cologno.http://leonardo.blogspot.com

mercoledì 15 maggio 2013

Angelo zappa per me

15 maggio - Sant'Isidoro lavoratore, contadino col pilota automatico (1070-1130)


Un altro Isidoro; questo non si nasconde in remoti conventi, non soffre di misteriose patologie e non inventa Internet; al limite può essere considerato il primo utilizzatore di un pilota automatico, perché è sostituito nelle sue incombenze da un angelo che si mette a zappare quando Isidro ha bisogno di pregare; e ne aveva bisogno spesso, essendo un santo.

Isidoro il contadino viveva con la moglie, Maria Toribia (beata, patrona dei lavori domestici) nei pressi di Madrid, cittadina araba riconquistata di fresco da sovrani cristiani, che mai avrebbe sospettato di trovarsi al centro di una nazione molto di là da essere disegnata sulle cartine, la Spagna... (continua in breve sul Post).

venerdì 10 maggio 2013

La scema Isidora


10 maggio - Santa Isidora la stolta, vergine in Egitto (quarto secolo)

Capita a tutti i supplenti l'esperienza di una classe antipatica - entri e sono già lì che litigano, è tutto un alzare le mani per dimostrare di saperne di più, o un puntarla sul compagno per dire È stato lui. In queste classi, tipicamente, c'è sempre una tizia in un angolino che si nasconde: non partecipa al chiasso, mostra di sentirsi a disagio quanto te, magari è molto brava, magari non capisce nemmeno l'italiano, è quasi impossibile capirlo. Il più delle volte, se fai una domanda, non risponde; se lo fa è un miracolo, al supplente vien voglia di darle dieci sulla fiducia, non vedete che ha capito più cose lei di tutti quanti qui dentro? Siamo tutti un po' individualisti noi supplenti, tra il branco e la pecora nera tifiamo sempre un po' per la seconda; finché non ci affidano una classe vera e ci accorgiamo di quanto sia meno faticoso e più conveniente gestire un branco ordinato. Ma veniamo alla santa del giorno, Isidora o Isadora detta la Stolta; e a Pitrim, il suo scopritore.

Pitrim è il solito eremita nel solito deserto egiziano, che un giorno ha una visione: Pitrim, vuoi vedere una Santa? Una Santa seria? recati al monastero di Tabenna, là c'è una monaca che è un vero modello di perfezione: la riconoscerai perché ha uno straccio in testa. Pitrim si reca dunque a Tabenna, dove le monache lo ricevono con tutti gli onori, evidentemente era un asceta sopra ogni sospetto. Nessuna però sembra corrispondere al modello di perfezione previsto, al punto che Pitrim comincia a chiedersi se non gli stiano nascondendo qualcosa. Siete sicuri che non mi state nascondendo nessuna monaca? Ne sto cercando una che - mi ha detto la visione - si sta avvicinando con le sue azioni e soprattutto la sua pazienza alla Passione di Gesù. Me le avete mostrate proprio tutte? Fratello, sì, te le abbiamo mostrate praticamente tutte. Come sarebbe a dire "praticamente"? Mah, ci sarebbero le minorate, o (come si dice in questo secolo) le indemoniate, adesso non ci dirai che ti vuoi mettere a ispezionare la virtù delle indemoniate... per esempio ce n'è una impiegata in cucina, Isidora si chiama, pensa, che non vuole nemmeno mettersi il velo, si copre i capelli con lo straccio per asciugare le pentole... Bingo! È lei! Portatemela subito! Ma fratello, abbi pazienza, è una matta... la chiamiamo Isidora la scema... Portatemela ho detto! Ma è magrissima, scoppierà uno scandalo, penseranno tutti che le trattiamo male e invece no, è lei che non vuol mangiare, l'unica cosa che ingerisce è la risciacquatura dei piatti, ci abbiamo provato in tutti i modi a nutrirla con la forza, ma niente da fare... Portatemela! È lei la più santa di tutti qua dentro! Non vedete sopra il suo straccio un'aureola? No, non vediamo niente, ma se lo dici tu... (Continua sul Post).

Morire con Miele

Miele (Valeria Golino, 2013)


Ecco in questa scena il broncetto lo voglio così
Irene (nome in codice Miele) è quel tipo di donna-ragazza che potrebbe averne venti come trentacinque, e se l'incontri in uno scompartimento, o in coda in farmacia, con le cuffiette e il piercing, ti domandi cosa può fare un tipo così, ti fai tutta una serie di viaggi: per esempio potrebbe ancora vivere con suo padre e aver abbandonato l'università da un paio d'anni senza dirgli niente; oppure potrebbe far parte di un nucleo di combattenti per l'eutanasia che aiutano in modo molto discreto i malati terminali che non ce la fanno più, ecco, beccato. Ma non era così difficile, ormai l'eutanasia sta diventando un genere cinematografico a tutti gli effetti; se ci fossero ancora i videonoleggi tra un po' troveremmo la targhetta sullo scaffale, insieme alle altre: Poliziesco, Dramma, Commedia, Romantico, Azione, Eutanasia.
"E di eutanasia cosa avete?"
"Ci ho tutto il meglio che è uscito quest'anno, Haneke, Bellocchio, tutto".
"Perché stasera ho proprio voglia di vedermi un film di eutanasia".
"Eh, la capisco. Ci ho anche l'opera prima di Valeria Golino, con Jasmine Trinca, molto interessante".
"E chi s'ammazza? La Golino?"
"No, lei non recita, dirige soltanto".
"Che peccato".

Io non lo so come funzioni, francamente non mi capita mai di aver voglia di vedere un film di eutanasia, neanche uno di quelli premiatissimi, neanche se c'è Jasmine Trinca che si spoglia spesso, neanche così. Ma evidentemente c'è un mercato, voglio dire, ne fanno veramente parecchi. Forse come argomento è l'equivalente dell'adulterio a fine Ottocento: lo fanno tutti ma non se ne può parlare, non resta che metterlo in scena. Anche gli scrittori fanno ancora un po' fatica a essere espliciti: quando quattro anni fa Mauro Covacich scrisse Vi perdono, il libro da cui è stato tratto il film, decise di pubblicarlo con uno pseudonimo; poi scrisse un altro libro sulla scelta di pubblicare il precedente con lo pseudonimo, ecc. Per il suo esordio da regista, dunque, Valeria Golino si è andata a scegliere il tema più scabroso e nel contempo inflazionato: e com'è andata? Non male, dai (continua su +eventi!) Andrà pure a Cannes (sezione Un certain regard), non ci si può davvero lamentare. All’inizio sembra quasi che la regista indulga in un vezzo di molti esordienti, l’abbondanza di raccordi: per fare entrare un personaggio in una casa lo mostri mentre esce dalla sua, poi sull’autobus, poi al citofono, poi per le scale, e così via. Ma dopo un po’ capisci che è una scelta stilistica: di tutte le angolazioni che si potevano scegliere per raccontare l’ennesima storia di Eutanasia, la Golino ha scelto di descrivere la vita quotidiana di un’operatrice clandestina.

Broncetto intenso.
Ne risulta un documentario su Jasmine Trinca imbronciata. Jasmine Trinca che si fa il caffè, Jasmine Trinca che nuota con la muta (sigh), Jasmine Trinca che prende l’aereo, prende la corriera, prende il treno, prende l’autobus, prende la bicicletta, prende i barbiturici in una farmacia messicana, prende un drink, Jasmine Trinca che ascolta i Caribou, ascolta l’opera, ascolta i Talking Heads, Jasmine Trinca con le occhiaie, con le palpitazioni, col sangue al naso, Jasmine Trinca che fa sesso in roulotte, in macchina, in due o tre altre stanze, e preciso che sono favorevole a un film di Jasmine Trinca che si spoglia in molti posti compreso sott’acqua, anche se non è chiaro il perché (ci sarà sotto una metafora), io non ho obiezioni a guardarmi novanta minuti di Jasmine Trinca, salvo forse una. Jasmine Trinca è ottima, finché è soltanto imbronciata – cioè per quasi tutto il film – e va benissimo, se passaste il tempo a contrabbandare barbiturici e a guardar gente morire e pensare alla mamma morta sareste imbronciatini anche voi, problemi? Volevate un film da ridere? non sceglievate lo scaffale Eutanasia. Ma a un certo punto il film richiede che s’incazzi davvero, c’è anche una mezza colluttazione, ed è il punto in cui come spettatore non ce l’ho più fatta. Ho smesso di crederci, e mi dispiace, perché stava andando tutto bene, ma la Trinca incazzata, la Trinca che assale Carlo Cecchi perché non è un malato terminale, l’ha fregata, è solo un anziano professore che si annoia e vuole togliersi di mezzo… non va, mi compromette la sospensione della credulità, da lì in poi non ce l’ho fatta più. Addirittura gli urla dalle scale “vaffanculo cane rognoso”, eddai sceneggiatori, chi è che parla così quando è incazzato? “cane rognoso”?

Probabilmente non è colpa sua. Magari è mia, in quasi tutti i film italiani c’è questa scena in cui i protagonisti si mangiano la faccia e io resto in imbarazzo. Non saprei dire esattamente cosa c’è che non va: so solo che non va. Forse è solo un’idiosincrasia personale: non mi piacciono le piazzate all’italiana. Forse è uno stile di recitazione che non funziona, urlano troppo o non urlano le cose giuste. O un problema di scrittura. Non lo so. Fatto sta che in mezzo minuto la Trinca da personaggio interessante diventa così odiosa che vien voglia di suicidarsi per farle un dispetto, “io non ammazzo i depressi”, dice, vaffanculo Irene, cos’hai contro i depressi, eh? eh? lo decidi tu chi sta male e chi no, e su che base? dall’alto di che pulpito? ma va’ a fare i tuoi broncetti in riva al mare, va’. Però mi dispiace. Era partito bene, con un paio di scene commoventi ma veramente molto misurate, e sapete che in un film di Eutanasia il segreto è la misura: agonie ma non troppo, piaghe da decubito ma senza esagerare. In seguito si risolleva, ma il danno è fatto. 

C’è poi la questione della colonna sonora, risolta con una playlist eterogenea e un po’ troppo condizionata dai gusti della regista, à la Sofia Coppola: anche se c’è una giustificazione narrativa (ogni assistito deve ascoltare la sua canzone preferita), il risultato è spesso frastornante e rischia di essere l’elemento più deteriorabile del film. Finché a un certo punto persino Irene sbotta che non ne può più, che vuole silenzio. Cecchi capisce, ma poi mette su Brassens. Non credo sia una coincidenza che il pezzo che si adatta meno alla situazione sia l’unico citato nel romanzo.

Alla fine, se vi piacciono i film di Eutanasia, cosa state aspettando? Muore un sacco di gente disperata, con almeno tre metodi diversi, è anche abbastanza istruttivo. Se vi piacciono i film con Jasmine Trinca, è semplicemente imperdibile. Se per un’incredibile coincidenza siete appassionati di entrambe le cose, questo è il vostro Intrattenimento Finale, da guardare a ripetizione il giorno che decidete di mettervi a letto non rialzarvi più. Buona visione (Miele è uscito la settimana scorsa ma sarà ancora al Fiamma di Cuneo fino mercoledì prossimo; proiezione unica alle nove nei giorni festivi; sabato 11 alle 17.30, alle 20.20 e alle 22.30; domenica alle 15.15, alle 18.15 e alle 21.00; ricordo che è la Festa del Cinema, il biglietto costa tre euro, che altro ci fate con tre euro? Per dire, persino ammazzarsi costa un sacco di più).

martedì 7 maggio 2013

Il nostro assai mediocre Belzebù

Festeggiare la morte di un nemico è sempre di cattivo gusto; se il nemico poi muore molto anziano, nel suo letto (lo si è visto di recente con Mrs Thatcher) è soltanto un po' stupido. C'è stato un periodo in cui Andreotti era il personaggio più simile a un nemico che riuscivamo a trovare nel panorama politico. Erano tempi più tranquilli, di riflusso; ci si arrangiava un po' con quel che c'era ed è finita che ci siamo inventati un Andreotti ben più interessante di quello che probabilmente è morto ieri. Un grande vecchio, burattinaio e tessitore di trame occulte ma chiacchierate un po' ovunque, disponibile al dialogo con qualsiasi potenza demoniaca, inclusa la mafia e il terrorismo, purché non si trattasse di salvare un rivale politico. Ce lo siamo immaginati così, per mancanza di meglio e per presunzione di meritarci un nemico alla nostra altezza, che supponevamo rilevante.

Il tempo ci ha dato torto da un pezzo: Giulio Andreotti probabilmente è stato un nemico molto mediocre. Mediocre la sua azione di governo, che si può sintetizzare in un mesto tirare a campare all'ombra incerta di questo o quella maggioranza; mediocre la sua diplomazia, e il solo fatto che a volte ci si scopra a rimpiangerla dice tutto sul baratro nel quale siamo caduti; mediocre soprattutto il suo personaggio pubblico, in tutti i suoi tentativi pre-berlusconiani di apparire simpatico sui media: le sue battute modeste, le sue comparsate televisive indigeste, il suo cameo in uno di quei pesantissimi film '80 di Sordi che chissà poi se ci meritavamo sul serio. Mediocre la sua prosa, le sue noiosissime rubrichine sull'Europeo e TV Sorrisi e Canzoni (per Beniamino Placido era il peggior scrittore italiano vivente), mediocri i ghost writer che si sceglieva e a cui commissionava brutti libri uno dei quali, Onorevole stia zitto, anticipò la moda degli stupidari: era il blob di tutte le scemenze trascritte in parlamento da Giovanni Giolitti in poi. Sulla carta un'idea geniale, ma davvero troppo in anticipo sui tempi: nessuno aveva ancora pensato di portare in parlamento cappi o mortadelle. E ora vi racconterò una cosa che su wikipedia non c'è: ve lo ricordate Nick Kamen? (Continua sull'Unita.it, H1t#178)

Non c’è da vantarsene, insomma era un modello che in uno spot della Levi’s si era spogliato in mutande ed era diventato un divo musicale per mezza stagione, più in Italia che altrove. Due o tre anni dopo fu premiato dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, a Domenica In. Qualcuno alla presidenza si inventò un premio e glielo fece consegnare, questo me lo ricordo solo io che imperdonabilmente quel giorno ero a casa davanti al televisore. Cosa per cui non so darmi pace, tanto che tuttora ogni volta che penso ad Andreotti non mi viene subito in mente Totò Riina, come a tanti, ma Nick Kamen; la sola idea che un premio a Nick Kamen in fase declinante potesse avvicinare qualche tipo di elettorato a Giulio Andreotti basta e avanza per liquidare una stagione di assoluta mediocrità – ma se preferite immaginarlo al centro di oscure trame atlantiche e trattative Stato-Mafia, se la cosa vi fa sentire più importanti, liberi di farlo. Non sapremo mai come siano andate le cose: a questo punto dipende unicamente da noi scegliere se raccontare la storia di un genio del male travestito da mediocre o viceversa. Per me viceversa.
Possiamo anche cambiare argomento, come si fa ai funerali di gente che non visitavamo da parecchio. Sono passate due settimane, ormai, e ancora non si è capito chi fossero i cento grandi elettori PD che bocciarono Prodi e fecero dimettere Bersani. Forse a questo punto non lo sapremo mai; probabilmente si sommarono tendenze diverse, di gente che magari non aveva capito esattamente la posta in gioco, o puntava su Rodotà, magari in buona fede. E magari davvero c’è ancora qualcuno in parlamento che gioca ancora a dalemiani vs veltroniani, sono vizi difficili da perdere. Nel frattempo però è nato in alcuni un sospetto, cresciuto man mano che il caos iniziale lasciava intravedere una forma sempre più definita: reincarico a Napolitano e grandi intese con Enrico Letta; vuoi vedere che quei cento lo sapessero sin dall’inizio? Vuoi vedere che non si trattasse di un progetto già definito, da menti finissime e tessitori invisibili a qualsiasi retroscenista? Insomma, sta’ a vedere che Enrico Letta è il nuovo Belzebù. Per immaginare una cosa del genere non servono prove, né indizi: basta la voglia di crederci, di immaginare che dietro tutto il casino ci sia un Grande Disegno; qualcosa insomma all’altezza delle nostre pretese, che restano ancora piuttosto in quota. L’alternativa è accettare l’idea di un Paese mediocre, al termine di una fase di espansione effimera, senza guide più che mediocri, e prospettive più profonde di un tirare a campare. Meglio di no, meglio immaginarsi vittima di qualche oscura trama. Ce la meritiamo. Ci meritavamo Andreotti, ci meritiamo Enrico Letta. RIP. http://leonardo.blogspot.com

sabato 4 maggio 2013

Soderbergh. Non causa sonnolenza.

Effetti collaterali (Side effects, Steven Soderbergh, 2013)


Ha detto Steven che, ihih, noi due adesso dobbiamo fare gli psicoterapeuti, capisci?Dai, fammi una faccia da psicoterapeuta.
Emily (Rooney Mara) dovrebbe essere contenta: suo marito ha finito di scontare la pena. Pensa che vennero ad ammanettarlo alla festa di nozze, gli screanzati. Quattro anni per un po’ di insider trading, in America non c’è veramente rispetto per chi fa girare i soldi. Comunque è andata, e poi la famiglia le è stata vicina, persino la datrice di lavoro è stata comprensiva, e allora perché verso metà pomeriggio le piglia sempre questa voglia di ammazzarsi? Per fortuna che c’è il dottor Jonathan (Jude Law), terapeuta inglese che è venuto a esercitare negli States perché “in Europa le pillole sono per i malati, in America per gente che vuole star meglio”. Cito a memoria. E voi state già immaginando un certo tipo di film di denuncia sulle derive americane della farmacopea antidepressiva, ed è esattamente quello che Soderbergh vuole farci credere. Prima di darci un film completamente diverso.

Comincio a pensare che sia una tendenza. Non è il primo, non è neanche il secondo film negli ultimi venti mesi che comincia con una falsa partenza e dopo un po’ prende una direzione abbastanza imprevista. L’esempio più eclatante è Come il tuono di Cianfrance (ATTENZIONE ADESSO PARTE UNO SPOILER DI COME IL TUONO), che sin dal trailer si presentava come un film-con-Ryan-Gosling-in-moto, fatto apposta per attirare in sala quel tipo di gente che vuole vedere Ryan Gosling e le moto (e la sala era piena), salvo ammazzare Gosling e moto dopo quaranta minuti. Molto coraggioso. Pure troppo, a sentire i borbottii del pubblico quando hanno acceso le luci.

In questo caso forse Soderbergh rischia ancora di più... (continua su +eventi!), visto che la trama come ve l'ho descritta io potrebbe motivare giusto quel centinaio di persone che vanno al cinema Monviso in infrasettimanale: e invece questo ve lo trovate in tutti i multisala; e c'è Jude Law, c'è la Zeta-Jones nascosta dietro occhiali da strizzacervelli, insomma, è chiaro che qualcosa non va. Ma il problema di questi film è che non puoi nemmeno raccontare un po' di trama. Non è il semplice twist, il finale a sorpresa, per dire, come in Oblivion - (ATTENZIONE ADESSO PARTE UNO SPOILER DI OBLIVION) dove infatti ce lo aspettavamo un po' tutti, e molti si sono lamentati della prevedibilità. Rifletteteci, perché un mese fa è uscito nelle sale un blockbuster hollywoodiano in cui il protagonista Tom Cruise a un certo punto si rivela essere un clone malvagio dedito allo sterminio degli esseri umani - e c'è pure stato qualche recensore che ha scritto (me compreso) "mmmmsì, prevedibile": ok, va bene, i cinquemila che avevano visto Moon potevano anche trovarlo prevedibile, ma scrivere sceneggiature originali sta diventando veramente un lavoraccio. C'è una specie di saturazione,  assuefazione, noia per l'intreccio canonico, anche quando è ben fatto; che peraltro è stato la molla che ha portato i Wachowski a dirigere Cloud Atlas, un'altra impresa coraggiosa ai limiti della follia. Ma almeno non assomiglia a nessun film, vuoi mettere la soddisfazione di lasciare i cacciatori di riferimenti a bocca aperta e mani vuote?

Con Soderbergh è più difficile, leggi "thriller psicologico" e mal che vada puoi sempre dire Hitchcock. Funziona sempre, al punto che c'è da chiedersi se li abbia soltanto inventati o anche un po' esauriti: impossibile ignorarlo, prima o poi ti ritrovi a riflettere se una situazione richiami di più Psycho o Marnie; se non sono modelli diventano ostacoli da aggirare (i veri cinefili, comunque, li riconoscerete perché non diranno Hitchcock, diranno Clouzot).

Ma ho già detto che è un bel film? È strano, da quando li recensisco a Cuneo mi sembrano tutti bei film. Sarà l'aria. Comunque è piaciuto quasi a tutti, Rooney Mara è almeno da nomination e sarebbe già la seconda volta. Se vi chiedete dove l'avete vista - e non siete patiti di rifacimenti USA di thriller svedesi - beh, è l'esile fanciulla che molla il protagonista all'inizio di The Social Network, insomma è lei la causa scatenante di tutto, il suo ruolo è quello della ragazza per colpa della quale perdiamo tutti ore di vita su facebook e gli insegnanti convocano i genitori per dire ci dispiace vostra figlia ha messo delle foto su facebook e qualcuno ha commentato e patatrac, non è incredibile pensare che da qualche parte nel vasto mondo quella ragazza esiste davvero? Al cinema è Rooney Mara. Anche in questo film, tutto ruota intorno a lei. Ma stavolta è un motore molto meno immobile. Basta, non posso più dire niente.

Effetti collaterali è al Cityplex Cine4 di Alba (ore 17:30, 20:00, 22:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:35, 20:15, 22:35); al Multisala Impero di Bra (20:20, 22:30); al Multilanghe di Dogliani (22:30); al Cinema Italia di Saluzzo (20:00; 22:15). Buona visione.

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