Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

venerdì 28 aprile 2017

Il disco che Dylan non voleva che ascoltassi

Dylan (1973, ma registrato nel 1970).

(Il disco precedente: Self Portrait
il disco successivo: New Morning).

Qual è la cosa più brutta che qualcuno che conosci potrebbe farti? per punirti, per ricattarti, per farti stare male, per farti capire che non puoi lasciarlo solo?

Nel 1973 la Columbia, appena abbandonata da Bob Dylan per l'Asylum, pubblicò un disco. Di materiale inedito. Cose che Dylan aveva registrato, che si era pentito di aver registrato, che non aveva pensato di distruggere. Cose talmente brutte che Bob Dylan cedette. Ritornò. Come clausola, chiese che il disco non fosse ristampato mai più. Ovviamente, presto o tardi la Columbia tradì il patto: di Dylan non si butta via niente. Ma per tantissimi anni quel disco, laconicamente intitolato Dylan, divenne una specie di feticcio.

Sembrava che non lo avesse ascoltato nessuno, anche se ne parlavano tutti i libri. I libri poi si limitavano ad accennare alla questione del ricatto, e ad informarci che i brani erano scarti di lavorazione di Self Portrait, un disco già così incredibilmente brutto che per qualche tempo Dylan volle farci credere di averlo inciso per scherzo. Self Portrait compare spesso (ingiustamente) nelle classifiche dei dischi più brutti di tutti i tempi: quanto avrebbe potuto essere orrendo un disco fatto di canzoni scartate da Self Portrait? Quanto doveva essere imbarazzante un disco che Dylan riuscì a non far uscire in formato cd? E Dylan di cd imbarazzanti ne ha pubblicati: ma il disco del 1974 no, quello non saltò fuori (almeno in Nordamerica) finché la Columbia nel 2013 non pubblicò un box di 35 album di studio: e a quel punto ormai di Dylan si era sentito ben di peggio. Questa rimozione lo ha reso un oggetto in un qualche modo leggendario. Self Portrait era già a suo modo un enigma affascinante; Dylan era un vero mistero. Cosa c'era di così orribile, di così inascoltabile, di così inemendabile?

Niente.

Ira Hayes è il primo a sinistra.
La verità è che Dylan non è il disastro che dovrebbe essere. Riascoltandolo - oggi che è un album tra tanti nel catalogo dylaniano di Spotify - davvero, non riesco nemmeno a confermare che sia così peggio di Self Portrait, un disco in cui nessuno dei brani di Dylan sfigurerebbe. Viceversa, Lily of the West o Ira Hayes potrebbero tirarlo un po' su. Ma forse esagero. È che dopo aver sentito parlare tante volte del Misterioso Album Orribile, l'Album del Ricatto, quando alla fine mi è capitato di ascoltarlo partivo da un pregiudizio talmente sfavorevole che non potevo che rivalutarlo - cioè, è vero che Mr Bojangles è imbarazzante (non solo l'idea che Dylan e Robbie Williams abbiano interpretato la stessa canzone, ma che la versione di Williams stracci quella di Dylan senza pietà) - ma non riesco a odiarlo per quello, lui dopotutto mica voleva farmela ascoltare, sono io che ho insistito, io che me lo sono andato a cercare. E Can't Help Falling In Love una volta all'anno si ascolta volentieri, basta far finta che Dylan sia tuo ospite a una cena e dopo l'amaro qualcuno gli abbia passato una chitarra. Niente di che, ma niente di così orribile.

Dylan è il gemello buono di Self Portrait. Quest'ultimo era un disco consapevolmente, deliberatamente brutto, inciso e pubblicato con l'intenzione di infastidire l'ascoltatore. Dylan è il disco che Dylan non voleva assolutamente farti ascoltare. Magari ad ascoltarlo un po' ti incazzi, ma non con lui. Anzi finisci per rivalutarlo. Non solo perché Big Yellow Taxi è meno terribile di quel che ricordavi, ma soprattutto perché dopo averla provata, Dylan ha avuto la saggia idea di nasconderla in un cassetto e non pensarci più. Stavolta non è stata colpa sua. Maledetta Columbia.

"Come sei arrivato qui?"
"Su un treno merci".
"Vuoi dire un treno passeggeri?"
"No, un treno merci".
"Vuoi dire su un vagone di quelli coperti?"
"Sì, un vagone così. Un treno merci".
"Va bene, un treno merci".
(Chronicles I)

Il marine che andò alla guerra.
Cosa c'è poi di così imbarazzante in Dylan? Lily of the West è una ballatona tradizionale da cui Dylan aveva già preso la melodia per As I Went Out One Morning - ma quella era uno strano sogno mattutino, qui invece siamo ancora nei dintorni di un'emittente AM del Midwest; ci sono i coretti. Bisogna farci l'orecchio, ci aspettano più di dieci anni di coretti femminili. Ma fin qui non sono molesti. In Sarah Jane Dylan per la prima volta comincia a cantare quei "lalalalala" che riascolteremo in New Morning The Ballad of Ira Hayes è una canzone che Dylan avrebbe dovuto registrare seriamente: lui più volte ha spiegato che queste cover le faceva all'inizio delle sessioni come riscaldamento, e questo è uno casi in cui sembra non sembra una scusa improbabile: nel senso che la canzone comincia quasi di malavoglia, con un pianoforte confuso che cerca gli accordi un po' a caso, e Dylan che invece di cantare il testo del vecchio amico folksinger Pete LaFarge si rimette, dopo tanti anni, a declamare. E funziona, il Dylan parlante, non si capisce davvero perché abbia smesso; anche qui hai la sensazione che potrebbe dire "basta così" da un momento all'altro. Finché non intona il ritornello (e partono i cori), e capisci che la canzone qui ci sarebbe.

Basterebbe provarla un po' di più - in sottofondo per ora c'è una specie di brainstorming, organo e chitarra stanno tutti cercando qualcosa, ma è proprio quel tappeto indistinto di suoni che serve da sfondo per la storia del marine pellerossa che si mise in posa per la foto di Iwo Jima e poi tornò nella riserva dei padri a ubriacarsi fino a morirne. LaFarge l'aveva incisa in diverse versioni, ma anche nella più intima non riusciva a non suonare un po' beffardo; Cash a suo modo è perfetto, il suo vocione straniante è come la maschera di un duro da rodeo che ha una storia commovente da raccontare ma non farà vedere una sola lacrima: è una lezione di come il country possa diventare uno strumento affilato, se tieni salda la mano. Dylan - che fino a pochi mesi fa spergiurava di voler fare country, di aver sempre voluto fare country - va nella direzione opposta: non senti nella sua voce un grammo di indignazione per le promesse inesaudite alle comunità dei nativi americani, ma l'ubriachezza e la disperazione quelle le senti. Viene il sospetto che più che al reduce dal Giappone, Dylan stia pensando a LaFarge, che in Corea si era rotto il naso in un combattimento clandestino, che aveva dieci anni più di lui e li aveva passati a bere, che ai tempi del Village aveva scritto una canzone con Dylan (ma non l'aveva mai incisa), che come lui aveva vantato inesistenti origini native americane e che era morto da solo nel suo appartamento proprio mentre il suo giovane amico sfondava con Like a Rolling Stone. LaFarge era un folksinger, Cash è un divo del country che raccoglieva fondi per i pellerossa (lui non si è finto un indiano, lui è stato nominato indiano onorario), Dylan sta inventando qualcosa di diverso. È il suono nato nella cantina di Woodstock - una specie di via bianca al soul, il suono che la Band sta maturando in autonomia. Invece Dylan lo sta per abbandonare - quando incrocerà di nuovo la Band, suoneranno tutt'altro. Forse non si è neanche reso conto di averlo messo in moto.
Chiamalo Ira l’ubriacone, tanto non risponde più.Né l’indiano sbronzo di whisky, né il marine che andò alla guerra...

Una cosa interessante di Dylan è che alcune cover sono successi del 1970 - in pratica Dylan suonava in sala di registrazione le canzoni che andavano in radio (continua sul Post).

giovedì 27 aprile 2017

Un paese normale (dove sfondano le scuole con gli autobus)

Questo forse ve lo siete perso, perché è successo nella mia piccola città, dove di solito non succede molto. Invece in questo mese, nei venti giorni tra la visita di un papa e quella di un presidente della repubblica, e nell'era in cui i camion sono diventati l'arma preferita dei terroristi, è avvenuto che:

- tre minorenni di origine africana si siano introdotti nottetempo in un deposito degli autobus,
- abbiano trovato le chiavi, ne abbiano dirottati cinque,
- ci abbiano giocato ad autoscontro in un parcheggio, e poi
- ne abbiano usato uno per sfondare l'ingresso della scuola che due di loro frequentavano:
- il tutto, ovviamente, filmandosi (esiste persino la soggettiva dello sfondamento scolastico).

Proprio i video hanno consentito ai carabinieri di acciuffarli nel giro di 48 ore (sabato pomeriggio, al McDonald, con i cellulari nelle tasche e i video nei cellulari), ma non è solo di questo che voglio ringraziarli. Soprattutto di come hanno gestito mediaticamente la vicenda: di come non abbiano perso né tempo né occasione per ribadire che si trattava di ragazzi "del posto", provenienti da famiglie "di lavoratori, ben integrate, che risiedono a Carpi da decine di anni", il che forse non è preciso, ma è prezioso; il fatto che il comandante abbia speso anche solo cinque secondi della conferenza stampa a comunicare che le famiglie dei ragazzi sono disperate. "Che non si venga a dare un taglio xenofobo a ciò che è successo". 

Non credo mi sia successo spesso di ringraziare le forze dell'ordine: ma se di questa storia non avevate sentito parlare fin qui; se nessun'emittente nazionale ha fatto in tempo a mandare una delegazione di cronisti allucinati a montare a neve un allarme terrorismo, credo sia stato soprattutto grazie a loro. E magari qualcosa comincia a crescere anche nelle redazioni locali, che hanno mostrato nell'occasione un'umanità di cui non le credevo più capaci.

Questo non rende la storia meno tragica (per quanto buffa): non significa che noi educatori non dobbiamo porci un problema (e chi custodisce le chiavi degli autobus non debba trovare un ripostiglio meno in vista). Però quella che ho visto in questi giorni mi è sembrata una città più normale di altre: un posto dove tre ragazzi fanno una cazzata e vengono giudicati per la cazzata, e non per il colore o per il cognome. Se vi sembra una cosa da poco, una cosa normale, beati voi.

martedì 25 aprile 2017

Storia di un panino deludente

The Founder (John Lee Hancock, 2016)

L'arca dell'alleanza.
Non c'è niente al mondo che valga come la perseveranza. Non il talento: nulla è più comune di un fallito di talento. Neanche il genio: il genio misconosciuto ormai è un luogo comune. Né l'istruzione: il mondo è pieno di straccioni istruiti. Solo la perseveranza e la determinazione sono onnipotenti. (Da The Power of the Positive, un libro che non esiste).

Ray Kroc non ha inventato il fast food: quello lo hanno messo a punto i geniali gemelli Dick e Mac MacDonald, nel loro ristorante di San Bernardino (CA), sfidando tutte le convenzioni degli anni Cinquanta (niente tavoli, niente cameriere, niente juke box) per concentrarsi su un solo obiettivo: servire istantaneamente hamburger e patatine. Kroc non ha inventato il franchising più efficace del mondo, anzi finché lo gestì lui direttamente non riusciva a rientrare nei costi di gestione. Kroc non ha nemmeno trovato un modo per risparmiare sulle celle frigorifere: l'idea arrivò dalla sua futura seconda moglie. Nell'impresa più epica della ristorazione moderna, Ray Kroc non ha messo il nome, non ha messo la faccia, non ha messo le idee: e allora perché è lui, e non un altro, il Fondatore? Perseveranza.

La terra promessa
The Founder, il film di John Lee Hancock dedicato a Ray Kroc, assomiglia un po' a quei primi esperimenti che i fratelli MacDonald avevano tentato prima di imboccare la strada giusta (e incontrare Kroc). Sulla carta, l'idea è perfetta. Un biopic su un personaggio controverso e visionario, commesso viaggiatore per vocazione più che per necessità. L'America che ha in mente è un luogo usa e getta, smontabile e ricomponibile, una pista autostradale solcata da viaggiatori frettolosi e rapaci come lui; prima di incrociare i fratelli MacDonald, Kroc aveva provato coi bicchieri di carta e i tavolini pieghevoli. I suoi primi veri discepoli sono disperati che vagano di strada in strada, di corridoio in corridoio, cercando di vendere qualsiasi cosa (fulminante l'episodio del venditore ebreo di bibbie protestanti). Come l'Aviatore di Scorsese, il Petroliere di Anderson, lo Zuckerberg di Sorkin e Fincher, Kroc è innovatore e prototipo: se si porta dentro una psicosi, non sarà contento finché non la condividiamo. The Social Network in particolare sembrava un ottimo precedente: anche stavolta l'eroe mefistofelico ruba l'idea a due bravi ragazzi non altrettanto determinati. I Big Mac non saranno interessanti e attuali come i social network, ma il loro pubblico al cinema in teoria ce l'hanno, specie se ne parli male (volete sentirvi vecchi? Super Size Me compie tredici anni). The Founder poi poteva contare sulla regia di John Lee Hancock, il regista di uno dei biopic più interessanti e stratificati degli ultimi anni, Saving Mr Banks: e del momento di grazia di Michael Keaton, dopo Birdman e Spotlight (due Oscar al miglior film in due anni). The Founder non poteva proprio andare male. E invece...

A quattro mesi dall'uscita nelle sale, il film non ha ancora coperto le spese di produzione (continua su +eventi!) Ai critici è piaciuto; i giurati dell'Academy hanno fatto finta di non vederlo; il pubblico non si è fatto vedere. Cosa non ha funzionato? Difficile dirlo. Da fuori il prodotto si presenta bene. Il primo morso è davvero stuzzicante - l'odissea di Kroc attraverso l'America, alla ricerca del solo messaggio di speranza in un futuro usa-e-getta: il piccolo ristorante di San Bernardino che non ha (incredibile!) nemmeno i tavolini, i piatti e le posate. È più tardi che ti rendi conto che The Founder non ha neanche lontanamente lo stesso sapore di The Social Network; quando nella seconda metà ti rendi conto che l'intreccio ruota sull'opportunità di inserire in menu un frappé liofilizzato. Manca molto più di un cetriolino; il formaggio è insapore; il bacon cartone abbrustolito, le patatine più gommose che croccanti. The Founder sembra il prodotto che ti servono in certi Mac, non sa di niente ma tanto tu lo manderai giù lo stesso perché il sapore del Mac ce l'hai già in testa, certe patatine sono solo un placebo. In cucina Keaton si dà da fare come al solito, ma tutto sembra dipendere da lui; le scene clou sono risolte in brevi dialoghi al telefono, le storie d'amore finiscono e iniziano nel tempo di alzarsi e sedersi dai tavoli. The Founder avrebbe potuto essere un grande film su una delle più straordinarie storie del capitalismo, ma a un certo punto è saltato il controllo qualità. È un vero peccato. All'Aurora di Savigliano, mercoledì 26 e giovedì 27 alle 21.

lunedì 24 aprile 2017

Questa non è la Francia, Matteo Renzi

Matteo Renzi ha ottimi motivi per essere entusiasta del successo di Emmanuel Macron in Francia: è stato uno dei primi a scommettere su di lui, quando era una scelta non solo azzardata, ma politicamente scorretta. Era ancora il segretario del PD, Renzi, quando all'indomani della sconfitta referendaria adottò l'hashtag #InCammino, evidentemente ricalcato sul nome del neonato movimento di Macron, En marche.

Un sostegno così smaccato a un candidato che non solo non rappresentava la componente francese del Partito Socialista Europeo (di cui il PD è orgoglioso membro), ma che si proponeva di cannibalizzarla, avrebbe dovuto forse destare qualche perplessità in più - acqua passata, Renzi non è più il segretario, è un battitore libero. InCammino è diventato un sito 100% renziano, con un claim vagamente minaccioso ("il futuro, prima o poi, torna") e senza un solo riferimento uno al suo partito; c'è anche l'app e un servizio che mi invita alle riunioni via sms.

(Colgo l'occasione per un appello - visto che a quei sms non si può rispondere - potreste togliermi dalla lista? Non so chi vi ha dato il numero - cioè lo so benissimo, ma non solo state usando la lista di chi ha votato alle primarie PD per promuovere un tizio che non mette neanche più la scritta PD nel suo sito... ma è anche uno spreco per voi, cioè, è chiaro che io non sono il vostro target, dai).

Non è la prima volta e non sarà l'ultima che un politico un po' appannato in patria cerca di aggrapparsi ai fenomeni che vincono all'estero: vedi l'euforia veltroniana per Obama. Macron poi ha davvero qualche tratto in comune con Renzi - forse più col Renzi invitto di qualche anno fa: è addirittura più giovane di lui, ha fatto un'OPA sul partito di centrosinistra e ha vinto. Nel dicembre del 2012, durante la campagna delle primarie, Renzi arrivò a minacciare di uscire dal partito: disse che c'erano sondaggi che lo davano al 25%. Quella che in bocca di Renzi era solo una smargiassata (in quel novembre prese 300 000 voti meno di Bersani, in dicembre 600 000), Macron l'ha realizzata. È rimasto fuori dal PSF, ne ha quasi svuotato il bacino liberal-moderato, ha attirato qualche voto dagli altri poli - ma anche così non supererebbe quel 25% che è la soglia del PD italiano.

Invece - e qui si capisce l'invidia di Renzi - a Macron un 23% basta e avanza per aggiudicarsi l'Eliseo al secondo turno: grazie al semipresidenzialismo della Quinta Repubblica, al doppio turno e alla conventio ad excludendum, la clausola anti-LePen che sin dai tempi del padre fa sì che la maggior parte dei francesi concentri il voto sul suo avversario, chiunque sia. Non è difficile capire che il sogno che ha animato l'avventura politica di Renzi sembra modellato più sul sistema francese che su quello italiano: la cosiddetta "vocazione maggioritaria" di Renzi non prevede un sfondamento del suo partito a destra o a sinistra (anzi il partito R. lo vorrebbe leggero, senza opposizioni), ma un bel doppio turno in cui mettere spalla al muro ogni italiano con una coscienza: o me o qualche personaggio impresentabile, un Grillo, un Salvini, un portavoce di Berlusconi o la sua mummia. Era il sogno dell'italicum: gli è andato male e non ha ancora capito perché. O almeno non mi pare che si sia reso conto che l'italicum non è stato bocciato dagli italiani cattivi, ma dalla Corte Costituzionale che non poteva che ribadire l'ovvio: i ballottaggi nazionali per eleggere un premier si fanno nelle repubbliche presidenziali (come la Francia); la nostra non lo è, e non lo può diventare con una legge elettorale. Non mi pare che si sia dato per vinto, perlomeno la retorica che lo anima è sempre la stessa: O me O la barbarie. E la risposta è sempre la stessa: in questo modo ci condanni alla barbarie, Matteo Renzi.

Perché in Italia non solo non c'è il semipresidenzialismo, non solo non c'è il doppio turno: soprattutto non c'è (né può essere introdotta per legge) la cosa più importante: la clausola anti-LePen, che da noi sarebbe... fino a qualche anno fa la chiamavamo clausola antifascista, ma adesso? Antigrillo, antisalvini, antigeloni? Non che abbia molta importanza. Non solo l'Italia ha, rispetto alla Francia, un passato fascista importante; ma anche nel passato più recente abbiamo avuto una coalizione berlusconiana che vinse placidamente le elezioni associandosi persino a Forza Nuova. È successo una decina d'anni fa, perché non potrebbe succedere domani?

Renzi sembra vivere la sua avventura politica come un romanzo di formazione: anche i suoi discorsi della sconfitta sembrano pervasi dalla fiducia che nell'ultima pagina del romanzo l'eroe trionferà; è una fede inossidabile che senz'altro lo ha aiutato ad arrivare dov'è, ma che purtroppo non posso condividere. Nel romanzo che ho studiato io, che non smetto di ripassare, i fascisti ogni tanto vincono. Il doppio turno, che in Francia li ha bloccati fin qui così efficacemente che Houellebecq addirittura se ne preoccupava (quanto è democratico un sistema che concede appena due o tre seggi a un partito che ha quasi un quinto dei suffragi?) in Italia potrebbe avere l'effetto opposto, e tenere per lungo tempo fuori dai giochi la parte politica che mi rappresenta. In futuro, se riuscirà a mettermi davvero con le spalle al muro, forse non avrò altra scelta che lui, ma finché posso evitarlo non vedo davvero perché dividere anche solo un tratto di strada con Matteo Renzi. Non è solo una questione di interessi diversi, è che secondo me va a sbattere. In Francia la pista è diversa, sì. In Francia avevano Gainsbourg, a noi è toccato Boncompagni, siamo diversi. È il bello dell'Europa (e la sua croce).

venerdì 21 aprile 2017

La merda d'artista di Bob Dylan

Self Portrait (1970)

(Il disco precedente è Nashville Skyline.
Il disco successivo è... ancora peggio!)

"Cos'è questa merda?"

Riassunto delle puntate precedenti
  • A 25 anni, Bob Dylan macinava due dischi l'anno di roba sperimentale, provata e riprovata allo sfinimento tra New York e Nashville; faceva tournée in tre continenti viaggiando su un vecchio boeing scassato, si teneva sveglio di notte per paura di lasciarsi sfuggire l'ispirazione per una canzone. Si faceva un culo quadro, intascava così e così, la gente ai concerti lo fischiava
  • A 26 anni lo stesso Bob Dylan aveva smesso di fare concerti pubblici, si era ritirato in campagna, incideva un disco in tre giorni senza fare promozione e... vendeva di più. Piaceva pure ai critici. 
  • A 27 anni non incideva un bel niente, e allora i fan ripescavano nastri abusivi, roba suonata in cantina un po' per ridere, li stampavano, e i critici applaudivano al capolavoro sconosciuto. 
  • A 28 incideva mezz'oretta di simpatici pezzi country, li presentava in tv e vendeva ancora più di prima, Ancora di più. E i critici continuavano ad apprezzare.
  • A 29... che fare? Voi al suo posto che avreste fatto?
Non vi sarebbe venuto in mente di pubblicare un disco di merda, giusto per vedere se pubblico e critica si facevano andare bene pure quello?

A Dylan venne in mente. Forse. È questione lungamente dibattuta tra dylanologi. Lo stesso Dylan in un primo momento lo escluse, poi lo ammise, poi in sostanza ritrattò. Su una cosa sono tutti concordi: Self Portrait, uscito nel 1970, è una merda. Rimane da stabilire se si tratti di una merda consapevole o di escremento uscito un po' per caso, al termine di una complicata serie di circostanze che portarono nel 1970 una merda tra tante in tutti i negozi di dischi e dritta in top ten. Che differenza fa?

Tutta la differenza del mondo. È la definizione stessa dell'avanguardia artistica: la merda in barattolo è Arte soltanto se l'Artista ne era consapevole durante l'Atto. Sennò una merda varrebbe l'altra, no?

Nel 1970 Greil Marcus aveva bisogno di un buon inizio per la sua lunga recensione del nuovo disco di Bob Dylan. L'inizio è sempre la cosa più difficile. Bisogna attirare l'attenzione, far sentire odore di controversia, appiccicarsi al lettore - funzionò. Credo sia uno dei rarissimi casi in cui una recensione è più famosa del disco che l'ha ispirata - perlomeno, la recensione la leggono tutti, l'album fanno una certa fatica ad ascoltarlo anche i fan più incalliti. Per un dylanita "What is this shit" è una frase celebre quanto "Judas!" (così come di Napoleone e degli antichi Romani si ricordano più le battaglie che hanno perso, di Dylan sono più celebri le contestazioni, le stroncature). Non era la prima volta che qualcuno osava criticare Dylan, ma nessuno aveva mai osato definire un suo disco una "m.": e a ben vedere nemmeno Marcus intendeva farlo. Era solo un'espressione di genuina sorpresa (già ai tempi "shit" poteva alludere a una più generica varietà di "roba"), di fronte al primo brano del disco, All the Tired Horses. Ma questa è la magia della prima riga: se ci scrivi "merda", anche se ti stai riferendo soltanto alla prima canzone e non stai parlando di vera merda, si sentirà puzza per tutto il restante articolo.

Il bello è che All the Tired Horses, secondo Marcus, era uno dei brani migliori (figurarsi tutto il resto). Si tratta di tre bizzarri minuti in cui Dylan non canta. C'è invece solo un ritornello, scandito per la prima volta da un coro femminile (non sarà l'ultima, ahinoi), che dice: "tutti i cavalli stanchi sono al sole, come potrò farmi una cavalcata?" Tutto qui? Tutto qui. Ma che roba è? Ecco.

È l'inizio di Self Portrait, l'autoritratto che Dylan mise assieme nel 1970; il primo disco di cui dipinse la copertina, che fa a chi la vede per la prima volta più o meno lo stesso effetto: che roba è? Smarrimento, incredulità - ci sta prendendo in giro? - e poi, se hai voglia di guardare bene, ti accorgi che quello sgorbio di tempera un po' a Dylan ci somiglia davvero, e che l'ipotesi più banale potrebbe essere per una volta la più logica: Dylan voleva davvero auto-ritrarsi. No, non ci stava prendendo in giro. No, non era un esperimento. Se ti sembra un quadro di merda, forse è davvero un quadro di merda.

È che non ci siamo più abituati. Se vediamo una merda in un museo, per prima cosa ci mettiamo a cercare un contesto - una didascalia, un dépliant illustrativo, un materiale interattivo, qualcosa che spieghi che senso ha esporre una merda proprio lì. Se non troviamo nulla, ci domandiamo se il senso non sia proprio questa mancanza di senso; se il contesto non siamo noi stessi (e il nostro aggirarci smarrito), se per caso non siamo protagonisti di un'installazione, una candid camera d'autore, ad es. 6700 VISITATORI DEL MOMA REAGISCONO A UNA MERDA. Due minuti dopo ci incrociamo con una visitatrice molto imbarazzata con cagnetto al guinzaglio e una paletta in mano ed è un'immensa delusione, per un attimo avevamo creduto di far parte di un'opera d'arte (per quanto di merda). Siamo talmente intrisi di ironia che rimaniamo smarriti quando scopriamo che un sacco di gente ne fa a meno.

Per un certo periodo credemmo anche che Dylan non potesse farne a meno; che Self Portrait non fosse un escremento d'occasione, ma una fece consapevole, una merda d'artista. Un fumoso stronzo deliberatamente depositato nel bel mezzo della sua discografia, per tenere lontano gli indesiderati. Lui stesso decise di assecondarci, a metà anni '80, avallando nelle interviste l'ipotesi che Self Portrait fosse una reazione diretta al Festival di Woodstock; quel momento in cui gli hippie avevano rivelato la loro natura fanatica e molesta e avevano iniziato a stalkerare lui e la sua famiglia. Lo seguivano dovunque, lo aspettavano al cancello; c'era una coppietta che si intrufolò nella camera da letto, BD si comprò un fucile. Di lì a poco un tizio comincerà a frugargli nell'immondizia - quella qualche anno fa divenne il format di un reality di successo, la spazzatura dei vip, ma è tutto cominciato nei cassonetti presso casa Dylan. Cosa voleva tutta questa gente? Perché insistevano contro ogni evidenza a considerarlo un portavoce, perché lo accusavano di aver tradito una causa a loro chiarissima e che a Dylan sfuggiva? Self Portrait sarebbe stato il modo per allontanarli. Mi rovistate nella spazzatura? Io vi cago nella collezione dei dischi. "Farò un disco che non possono apprezzare, in cui non si possano riconoscere", si sarebbe detto ("Rolling Stone", 1984). "Lo guarderanno, lo ascolteranno, e si diranno: passiamo al prossimo, lui non ci ha dato quel che voleva". Più che un autoritratto, un autosabotaggio.

("Questo accadeva più o meno ai tempi di quel festival di Woodstock, che fu la somma di queste stronzate", "Rolling Stone", 1984).

Col tempo - e con la riapertura dei vecchi cassetti - abbiamo scoperto che anche stavolta Dylan non stava dicendo la verità. Magari in buona fede; capita tutti di confondere le date e sovrapporre stagioni diverse. Che abbia cercato di disgustare gli hippie è appurato, ma era un proposito già completamente messo in pratica in Nashville Skyline, un disco simil-country buono per il pubblico del Johnny Cash Show, mentre la gioventù americana bruciava le cartoline per il Vietnam e BD si rifiutava di dire una sola parola in riguardo. Più lontano dalla controcultura, più vicino alle buone cose di pessimo gusto del Midwest sembrava non potesse andare. Invece Self Portrait va oltre, e come sabotaggio funziona fin troppo: la prima vittima è proprio il Bob Dylan versione country, qui infiocchettato da cori e violini oltre i limiti della parodia.

Nel 1975 Lou Reed era incazzato con la sua etichetta. Si chiuse nello studio con un tecnico del suono, incise un'ora e tre minuti di distorsioni e feedback, e pubblicò il doppio album Metal Machine Music, un disco deliberatamente inascoltabile. Self Portrait non ci si avvicina minimamente. C'è qualche canzone che sembra messa lì proprio per infastidirti, ma il più delle volte l'impressione è di goffaggine più che di impudenza.

L'originale era Je t'appartiens
di Bécaud!
Più probabilmente si tratta di un errore di percorso, inevitabile se tutti continuano ad applaudirti qualsiasi cosa tu faccia: a un certo punto ti convinci di poter fare qualsiasi cosa, e si dà il caso che Dylan abbia davvero voglia di fare qualsiasi cosa. Oggi abbiamo ormai accettato questa sua stranezza, e lui si è d'altra parte sforzato di renderla in qualche modo più accettabile, ma scoprire nel 1970 che Dylan aveva gusti molto più eclettici di quanto ci avesse mai raccontato; che amava le canzoni francesi e lo swing, che sognava di cantare Bécaud e Blue Moon! (a un certo punto il disco si doveva intitolare Blue Moon)... fu uno choc. Self Portrait è la prima precoce manifestazione di una delle facce che Dylan ha del tutto svelato solo negli ultimissimi anni: l'aspirazione a diventare un enciclopedico cantante da pianobar. Dylan è convinto di poter cantare qualsiasi cosa, e soprattutto è convinto che la cosa potrebbe interessarci. L'idea di un album monumentale, un songbook di autori diversi, Dylan la cullava già trent'anni prima di Triplicate. Ne aveva già accennato a Traum durante l'intervista del 1968. Ci stava lavorando anche durante le session di Nashville Skyline, e forse ci avrebbe lavorato ancora per parecchi anni prima di far uscire qualcosa di buono. Ma poi dev'esserci stato un imprevisto - forse l'isola di Wight.

Ray Charles coi riccioli, ma perché.
L'insofferenza per i fricchettoni non era il solo motivo per cui non si era fatto vedere al festival di Woodstock. Gli organizzatori dell'altro grande festival del 1969, quello all'isola di Wight, avevano offerto di più (e lui di quei soldi aveva bisogno, spiegò ridacchiando a un cronista). A parte qualche comparsata a eventi straordinari, Dylan non avrebbe fatto altri concerti fino al 1974. Era l'artista più pagato del festival, era l'evento più importante, era abbastanza ovvio che la Columbia si aspettasse di incidere il live. Ma anche stavolta alla fine il disco dal vivo non arrivò. La registrazione era scadente, e anche la prestazione di Dylan e della Band... lasciava perplessi. Col tempo (e con le rimasterizzazioni) il concerto all'isola di Wight ha trovato i suoi estimatori, ma nel 1970 risultava impubblicabile. A questo punto però l'etichetta voleva lo stesso un disco doppio, e Dylan glielo diede. È un'ipotesi: non l'ho trovata scritta da nessuna parte e quindi la scrivo io: forse Self Portrait è quel guazzabuglio senza senso che è perché Dylan lo mise insieme in fretta e furia come alternativa a un live che suonava ancora peggiore.

Questo spiegherebbe anche la questione della lunghezza. Self Portrait non è soltanto un disco pieno di roba senza senso; è due dischi di roba senza senso. Come affermò Dylan 15 anni dopo, un mucchio di merda ("crap", disse lui) ha senso solo se è grosso. Per quanto centrifugo sia l'insieme, non sarebbe stato impossibile estrarne un disco da mezz'ora come i due precedenti. Una delle due Alberta, una delle due SadieDays of '49, Copper KettleGotta Travel On, quel brano canticchiato senza un testo che poi Wes Anderson mise in un film...  - non sarebbe stato un capolavoro; una cosetta senza infamia e senza lode che sarebbe passata indenne al vaglio dei critici, magari addobbata di qualche specchietto alle allodole, qualche vago richiamo alle atmosfere western che avevano già reso più digeribile quello strano oggetto che era John Wesley Harding. Dylan avrebbe potuto tirare fuori un disco dignitoso dalle session di Self Portrait, ma è abbastanza evidente che la dignità stavolta non gli interessava. Era viceversa il momento di sbracarsi un po' (continua sul Post)

giovedì 20 aprile 2017

Però l'ANPI nazista, insomma, no.

Questa è la bandiera della Brigata
Ebraica, che partecipò alla Resistenza.
Si avvicina il 25 aprile, col suo classico profumo di scazzi sui negozianti che vogliono tenere aperto senza pagare troppi straordinari (per Scalfarotto è tipo la fine del medioevo), filopalestinesi che fischiano la bandiera della Brigata Ebraica, ebrei che non vogliono la bandiera palestinese. Quest'anno il PD romano ha deciso che non parteciperà alla manifestazione dell'ANPI, ma a quella della Comunità Ebraica. Questa è una notizia - che esista ancora il PD romano, intendo. A quanto pare doveva scegliere tra comunità ebraica e ANPI, e ha fatto la sua scelta. C'entra l'amarezza per com'è andato il referendum? Naturalmente no, saremmo molto cattivi a pensarlo.

Io potrei anche concordare con Fabrizio Rondolino - che del PD renziano è ormai, a quanto pare, autorevole portavoce - quando afferma che l'ANPI non ha l'esclusiva del 25 aprile. Del resto non avrebbe i mezzi per difenderla. In termini pratici: i soci dell'ANPI non possono impedire che qualche attivista arrivi alla loro manifestazione e srotoli una bandiera palestinese. Mi sembra che il presidente dell'ANPI oggi l'abbia spiegato abbastanza bene: tutto quello che può fare la sua associazione è "dare l'indicazione di non portare bandiere che non siano quelle della Resistenza"; cosa che ha fatto, più volte. Assoldare buttafuori che allontanino tutte le persone che hanno una bandiera non resistenziale, l'ANPI non può farlo e non lo fa. Non dispone di un servizio d'ordine abbastanza massiccio e capillare, e sarebbe paradossale che se ne munisse: è un'associazione che difende la memoria della Resistenza, non un corpo paramilitare che organizza una parata.

È anche vero che tra le bandiere della Brigata, ogni tanto,
faceva capolino qualche bandiera israeliana,
che come quella palestinese non appartiene alla Resistenza.
Un servizio d'ordine ANPI avrebbe dovuto buttar fuori
anche quelle bandiere?
Per questo mi pare che Rondolino e comunità ebraica raccontino soltanto un lato della faccenda. È vero, purtroppo, che negli anni scorsi la bandiera della Brigata Ebraica è stata puntualmente fischiata da attivisti filopalestinesi (è anche vero che l'ANPI ogni volta ha stigmatizzato l'accaduto e ha preso le distanze dai contestatori). Ma è anche vero che negli stessi anni la comunità ebraica ha più volte definito i palestinesi "nazisti", e "alleati di Hitler", e non uso le virgolette a caso: in questo momento sul sito della Comunità di Roma c'è un comunicato che dice che l'ANPI Roma avrebbe deciso "di cancellare la storia e far sfilare gli eredi del Gran Mufti di Gerusalemme che si alleò con Hitler con le proprie bandiere".

Ricapitolando: la Comunità ebraica non chiede semplicemente (com'è suo sacrosanto diritto) di poter sfilare con la bandiera della Brigata Ebraica che partecipò alla Resistenza. La Comunità ebraica non vuole vedere bandiere palestinesi perché per la Comunità ebraica quella bandiera - che rappresenta una nazione con un seggio all'ONU, ricordiamo - è nazista, e chi la sventola è nazista. Quando l'ANPI fa presente, per l'ennesima volta, che non può veramente impedire a un filopalestinese di sventolare la bandiera di una nazione che aspira alla fine di un'occupazione militare, l'ANPI diventa una organizzazione negazionista che fa sfilare gli eredi degli alleati di Hitler.

Questo succede, mi pare, nell'indifferenza generale, perché poche cause come quella palestinese ormai risultano perse: oltre che a un nocciolo di affezionati, della Palestina frega ormai niente a nessuno, e il fatto che all'Unità qualcuno possa definirli filonazisti non desta davvero nessuna sorpresa. Cerco di mantenermi sorpreso io, giusto per un dovere di testimonianza: a questo punto non solo è nazista chiunque chiede che ai palestinesi sia riconosciuto il diritto all'autodeterminazione, ma siccome chi lo fa a volte partecipa alle manifestazione dell'ANPI, è nazista pure l'ANPI. Senz'altro sono nazista pure io che lo scrivo, e tu che leggi, tu: comincia a farti qualche domanda.

Quanti simboli nazisti vedi?
A quel punto un partito novecentesco, un partito di massa, cosa farebbe? Ci metterebbe il servizio d'ordine, butterebbe fuori i facinorosi e farebbe ragionare i capibastone. E un partito contemporaneo, più leggero, ma che non rinunci alla sua responsabilità di intellettuale collettivo? Cercherebbe di trovare una sintesi tra le istanze della Comunità ebraica, dell'ANPI e di quel nucleo più o meno compatto di filopalestinesi che, se festeggiano il 25 aprile, così tanto nazisti non devono essere: e votano anche loro. Il PD romano questa cosa non riesce a farla, e quindi forse la notizia non c'è: il PD romano non esiste. Esiste Orfini e il 25 aprile non andrà al corteo dell'ANPI: e se non l'avesse detto in giro, forse non se ne sarebbero accorti in parecchi. Buona Liberazione a tutti, festeggiatela con chi vi pare.

martedì 18 aprile 2017

La Boldrini, la legge di Poe, i finti ignoranti (peggiori dei veri)

In questi giorni la presidente della Camera Boldrini ha deciso di segnalare l'ennesima bufala che circola nei suoi confronti, e che mette maldestramente in mezzo la sorella (deceduta). La bufala in questione era nata in realtà come una parodia di altre bufale, ma alla fine era stata condivisa anche da qualche anti-boldriniano in buona fede, ed è questo il motivo per cui mi metto a parlarne, per ribadire un punto che mi sta più a cuore di altri: il modo in cui ci frega la legge di Poe.

IDIOTI. 
La legge di Poe stabilisce che non è possibile creare una parodia del fondamentalismo in modo tale che qualcuno non la confonda con il vero fondamentalismo - senza almeno un segnale condiviso che indichi che si tratta di parodia. Il tizio che la formulò aveva in mente le discussioni sui forum e pensava che sarebbe bastata una "winkey smile", un faccia con l'occhiolino. Oggi che tutto il web è una sola conversazione, temo non ci sia faccino o convenzione che tenga. Funziona col fondamentalismo e funziona con qualsiasi altro argomento. Le parodie sono scherzi che condividiamo con una comunità: servono a distinguere tra chi ci casca e chi capisce al volo. Chiunque le dissemina, è consapevole che qualcuno ci cascherà. E quindi chiunque ha disseminato la parodia anti-boldriniana era consapevole che prima o poi sarebbe successo questo. Il divertimento - se c'è - sta appunto in questo: nel senso di appartenenza a un élite di sgamati.

Scrive Mantellini che l'immagine in questione era "un’imitazione di una campagna online raffinata e intelligente le cui immagini sono state molto diffuse e molto condivise qualche tempo fa. Un’iniziativa messa in piedi da alcuni esperti di social media per sottolineare l’ampiezza della credulità alle bufale online". Già ai tempi mi permisi di eccepire sulla raffinatezza di una campagna che mirava a combattere la proliferazione delle bufale on line mediante la proliferazione di altre bufale on line, e all'accortezza di questi "esperti di social media", tanto esperti da ignorare la legge di Poe: fossero vissuti ai tempi del fascismo, probabilmente lo avrebbero combattuto stampando a loro spese parodie di manifesti fascisti indistinguibili dagli originali.

Tocca ribadire: su internet la parodia del razzismo diventa in breve indistinguibile dal razzismo. La parodia del gentismo fa la stessa fine. Vuoi continuare a farla? Evidentemente non ti interessa il problema. Cosa voglio davvero ottenere disseminando contenuti del genere? Chi deve abboccare? Se penso che si tratti di cretini senza speranza, far loro il verso è come ridere di un disabile. Se invece credo che la speranza ci sia, che i tizi in questione possano cambiare idea, ottimo: ma di sicuro non gliela cambierò ridendogli in faccia o facendogli il verso.

Io poi non chiedo di meglio che di essere in errore, e quindi se conoscete una persona, una sola persona che dopo aver condiviso una finta bufala si sia resa conto del suo errore e abbia cambiato il suo punto di vista sulla Boldrini, o sui vaccini, o su Trump, o su qualsiasi cosa... me la presentate? Fino ad allora continuo a pensare che le parodie non aprano gli occhi a nessuno, ma servano soltanto a farsi l'occhiolino tra iniziati. E quelli che ammiccano, su internet, sono più fastidiosi di quelli che ci cascano: i quali, con tutti i loro limiti culturali, probabilmente sanno che un problema non si risolve prendendolo in giro. 

sabato 15 aprile 2017

Daniel Blake sono io, sei tu, noi voi essi

Io, Daniel Blake (Ken Loach, 2016).

Che inquadratura statica, asimmetrica, che colori smorti.
Daniel Blake un giorno era un signore che si fece arrestare fuori da un ufficio dell'impiego. Non ce la faceva più. Dopo un infarto il medico del lavoro gli aveva proibito di lavorare. La previdenza sociale, per dargli il sussidio, pretendeva che cercasse un lavoro. Così lui andava in giro cardiopatico per le officine, lasciava il suo curriculum, e il bello è che qualche lavoro glielo offrivano pure ma lui doveva dire di no, lui non poteva lavorare. Poteva solo cercare lavoro, anzi era obbligato a farlo.

(C'è chi dice che i film di Ken Loach non sono cinema. Tanto per cominciare sono tutti a tesi, e pure la tesi è sempre quella, non potrebbe almeno cambiarla un po'? E poi è sempre tutto così appiattito, così realistico -  ma senza quella fissa per i dettagli dei cineasti che hanno pretese - in una parola, così televisivo).

Che fotografia discutibile, e le luci poi, mah. 
Daniel Blake è quella collega che un giorno in lacrime ti ha chiesto se potevi passarle un assorbente; è quel vicino a cui stavano staccando la luce l'estate, il riscaldamento in ottobre. Daniel Blake è quel signore in biblioteca che deve andare su internet per compilare un modulo, e all'inizio ti fa ridere perché non sa dove mettere il mouse, ma dopo dieci minuti che cerchi di spiegarglielo no, non ti fa più ridere un cazzo, il mondo contemporaneo dal punto di vista di un non vedente.

(C'è chi dice che Ken Loach è superato. Non ha l'intensità dei Dardenne, la profondità di Mungiu, alla fine gira sempre lo stesso film).

Daniel Blake è quel tuo collega che un giorno si è ammalato e a tutti dispiaceva, all'inizio; ma col tempo ha prevalso il fastidio, lui proprio non si rassegnava a pre-pensionarsi e faceva sempre più assenze, sempre più problemi, finché un giorno è morto e di nuovo a tutti è dispiaciuto, ma almeno aveva finito di soffrire: e anche voi.

(C'è chi dice che Ken Loach non fa più cinema, se mai l'ha fatto. Prende un caso limite, e ci imbastisce il solito temino veterolaburista. Il suo Daniel Blake è l'ennesimo martire della società. Non ha difetti, divide il suo sussidio con gli orfani e la prostituta).

Daniel Blake sarò io, il giorno che qualcuno mi dirà che non posso più farcela... (continua su +eventi!) e all'Inps mi diranno che per la pensione è troppo presto, che ci avrei dovuto pensare prima. In realtà ci sto pensando, ma, ecco, una soluzione proprio non la vedo. Tranne salutare tutti, esser gentile con tutti, e sperare che quel giorno qualcuno sia gentile con me.
(C'è chi dice che Ken Loach non fa cinema, fa propaganda; che la società è un po' più complicata di Poveri ma Buoni contro il Sistema. Lo è senz'altro).
Daniel Blake quel giorno ha scritto con la bomboletta che pretendeva un riesame del suo caso prima di crepare. Ma fuori nella strada c'era solo un gruppo di signore che andavano a un addio al nubilato e un ubriacone che ha inveito contro i poliziotti, quando sono venuti ad arrestarlo. Nessun altro avrebbe fatto caso a Daniel Blake - ma forse in quel momento passavano anche Ken Loach e il suo sceneggiatore di sempre, Paul Laverty. Pochi mesi dopo Daniel Blake era a Cannes e ha vinto la palma d'oro. Lo so che è stupido, ma è come se l'avesse vinta anche per me, per te, per noi. C'è chi dice che non è cinema, Ken Loach, e in effetti può darsi. Ma certi giorni mi sembra di non avere poi così bisogno del cinema, mi sembra di avere più bisogno di Ken Loach.

venerdì 14 aprile 2017

Bob il profeta, Bob il contadino

Nashville Skyline (1969)

(Il disco precedente: John Wesley Harding.
Il disco successivo è... è... terribile).

Una volta avevo le montagne nel palmo della mano, e i fiumi vi scorrevano ogni giorno. Devo essere stato un folle, non mi rendevo conto di quello che avevo finché... ho buttato tutto via.


Avete sentito di Morgan? Si è fatto cacciare dagli Amici di Maria De Filippi. Pazzo. Ha definito bimbiminchia i giovani del pubblico che non lo stavano ad ascoltare in religioso silenzio. Perché l'hai fatto, Morgan, ti fanno proprio così schifo i soldi? Hai figli, hai famiglie, hai un'età, ma insomma. Ma il meglio è venuto subito dopo la scenata. Con lo stesso tono standard con cui avrebbe potuto annunciare la pubblicità o un'invasione aliena, Maria ha invitato sul palco... Francesco De Gregori. Qualcuno ha pensato beh, sarà un imitatore, un alleggerimento comico. Invece dalle quinte è saltato fuori proprio lui, il vero Francesco De Gregori, in giacca di pelle e berrettino, e ha cantato Rimmel. Neanche fosse la cosa più normale del mondo, un cantante in tv.

Non lo è. De Gregori ci andava con molta parsimonia, in tv. Non si fece vedere nemmeno a quei festival di Sanremo un po' sostenuti, quelli di Fazio. Ma da Maria ogni tanto ci va, sì, non è nemmeno la prima volta. Però l'altra sera ha avvisato che era "terrorizzato", perché aveva appena sentito i giudici parlare di intonazione, e lui in generale non è molto intonato. I giurati l'hanno tutti presa per un'esibizione di falsa modestia, ma come, Maestro! Ma aveva ragione, De Gregori è molto sincero sui suoi limiti. Ha sempre avvertito che gli piacerebbe cantare meglio di come canta, suonare meglio di come suona: i fan si accontentano, ma lui meno. È tipico dei professionisti accorgersi dei propri errori prima che ci faccia caso il pubblico. Di sicuro tra i concorrenti di Amici ce n'è di più intonati di lui. Con due di loro ha cantato Questi posti davanti al mare. Perché l'ha fatto? È una provocazione? Un'offerta che proprio non poteva rifiutare? Avrà famiglia pure lui. Di sicuro sembrava godersela.

Chissà che avrebbe fatto Dylan al suo posto. Non è una domanda così strana: molte scelte di De Gregori diventano comprensibili appena pensi a cosa avrebbe fatto Dylan. Lui non ci scenderebbe mai, vero, tra i Bimbominchia di Amici? O no?

Bbbbzzzzzzbzzzzzzif you're travelling in the north country fair...

Primavera 1969. In viaggio nelle contrade del nord, giri tra le frequenze AM in cerca di un notiziario, senti Johnny Cash col suo bel vocione che canta un pezzo di Dylan. Mai sentito, ma non è una gran novità, è da almeno cinque anni che Cash canta pezzi di Dylan, chissà quando l'ha inciso questo. La cosa strana è il tizio che duetta con lui. Sembra... sembra... come se Dylan smettesse di fumare e imparasse a cantare. Un Dylan per le masse, un Dylan di campagna. Per un po' non ci ripensi più. Ma la canzone torna a saltare fuori, come se fosse un pezzo appena uscito. Anche sulle radio FM. E prima o poi senti un dj che ti avverte: "Questa era la nuova versione di Girl of the North Country, dall'ultimo disco di Dylan, Nashville Skyline". L'altra voce che sentite è Johnny Cash - tante grazie, è chiaro che è Cash. Non si può confondere Johnny Cash.

Ma chi è quel tizio che canta con lui?

La strinsi tra le braccia, mi disse che era mia. Ma poi fui un animale, l'ho trattata così male, ed è così... che ho buttato tutto via (la persona che ha scritto questa cosa ha scritto anche It's Alright Mama I'm Only Bleeding).

A un certo punto la diede a bere a tutti, Bob Dylan. Cambiare faccia a vent'anni è facile, ci abbiamo provati tutti: basta farsi crescere un po' di barba e cominciare a sorridere davanti all'obiettivo. Ma la voce? Cambiar voce fu davvero un colpo basso. La voce di Mr Tambourine, la voce di Rolling Stone, Dylan era riuscito a rinnegare anche quella. Ma era lui davvero cantava nel nuovo disco? Certo. Aveva solo smesso di fumare, dichiarò. "Smetti con quelle sigarette e puoi cantare anche Caruso". E per un po' ci credettero. Era la stessa voce che si ricordava la sua fidanzatina a Hibbing, prima che intervenisse una broncopolmonite malcurata. Era il Dylan vero, il Dylan genuina-espressione-del-suo-territorio, il Dylan country.

Ho sentito delle voci andando a spasso. Dicono che hai intenzione di lasciarmi in asso. Ti prego amore, anima mia: dimmi che è solo una bugia (dall'autore di Masters of War).

Nashville Skyline non era un semplice episodio, un intermezzo, un week-end in campagna. Non era il finale country di John Wesley Harding dilatato in mezz'ora, il trionfo del Marito Coccolone. Nemmeno una semplice svolta commerciale. Per almeno un anno Nashville Skyline, una collana di simpatiche canzoni da balera, così innocue se le avesse registrate chiunque altro, divenne una mossa di revisionismo esistenziale. Peggio, molto peggio di sgozzare una Fender Telecaster a un raduno di musica folk: adesso Dylan cantava "Oh me oh my love my country pie" mentre la polizia caricava i manifestanti pacifisti nei college. Al Dylan che sorrideva amabile in copertina non bastava dire: sono cambiato. Voleva convincerci che era stato sempre così. E gli anni del folk di protesta? Un equivoco, si era ritrovato al Village con la chitarra e si era arrangiato a fare quello che al Village volevano ("You sound like a hillybilly", vi ricordate? "We want folksingers here". Così si era inventato un Dylan giovane e arrabbiato, e più tardi un Dylan rock, ma quelle erano maschere. A lui non interessava davvero cantare "una dura pioggia scenderà", o "i tempi stanno per cambiare", e nemmeno "come ci si sente senza più una casa". Al Dylan vero interessava cantare: "Stanotte starò con te", "Stenditi stella sul mio gran letto in ottone". Come avevamo potuto illuderci del contrario? E la politica? Mai fatta davvero, erano solo frasi estrapolate da giornalisti cattivi. E la guerra? C'è sempre stata, è parte della vita, così gira il mondo, ma io sono un musicista. E il rock and roll? Gran musica da ballare, divertente, per fare stare bene la gente. E tutta quell'ansia di morte, tutte quelle paranoie? Ma no, era sempre stato un allegrone Bob, ma i fotografi gli dicevano: "Non ridere! Non ridere!" Una questione di denti storti, magari.

Scende la notte / su nel cielo stelle a frotte / ma stanotte io son solo e lei non c'è. / C'è una luna luminosa che risplende su ogni cosa, / ma stanotte non c'è luce su di me (dallo stesso autore di Subterranean Homesick Blues).

I Beatles con Sgt Pepper's si erano travestiti da banda di ottoni. Dylan con Nashville si truccò da divo country, e non sarebbe stato nulla di così particolare. I concept album non erano una novità, Johnny Cash ne pubblicava di continuo - ne aveva appena inciso uno da cowboy e un altro da buffone. Ma Dylan per un po' riuscì a convincere il suo pubblico del contrario. Che il faccino sorridente di Nashville era la sua vera faccia, senza maschere. Che la voce morbida da crooner di Nashville era la sua vera voce, senza filtri. Col senno del poi, è facile riderci sopra.

È vero che Dylan può avere un timbro un po' più basso, se sforza un po' il seno nasale: lo sentiremo bello tonante in Before the Flood. Ma la voce di Nashville Skyline è un puro esperimento di laboratorio. Nasce a Nashville e resta a Nashville. BD la adopera soltanto in questo disco e in alcuni brani del successivo: mai dal vivo. Tanto che il duetto iniziale con Cash (deludente come tutti i suoi duetti, sempre inferiori alla somma degli addendi) sembra inserito proprio a scopo illusionistico: convincerci che è un timbro vero, che è una voce reale, Johnny Cash è testimone, era lì e può garantire. Sarà. Nel frattempo la premiata ditta Dylan ha pubblicato qualsiasi cosa. Tutti i concerti degli anni Sessanta. Tutte le session di un sacco di dischi: sugli scaffali c'è roba che anche i dylaniti più masochisti credo usino soltanto per mettere gli ospiti a disagio dopo il dolce e l'amaro. Ma le session di Nashville per adesso non le abbiamo. Sappiamo che durarono otto giorni, e che furono relativamente più laboriose di quelle davvero rapide di John Wesley Harding. Sappiamo che Johnny Cash vi partecipò con sollecitudine e professionalità, non venne solo a fare il fenomeno: incise decine di take delle stesse canzoni. Provarono One Too Many Mornings almeno una dozzina di volte. E di tutto questo non avrebbero voluto farci sentire niente. Dylan fin qui ha pubblicato soltanto Girl of the North Country, e Dylan è uno che pubblica veramente di tutto. Qualche cosa in più è finita in qualche collezione di inediti di Cash, che probabilmente aveva meno da nascondere.

(Al primo ascolto, Nashville Skyline lo rifiuti. Che roba è. Il primo pezzo è una auto-cover che serve giusto a sfoggiare l'amico Cash. Il secondo è... un ragtime strumentale. Chi è che si compra un disco di Dylan per ascoltare dei sessionmen di Nashville suonare un ragtime? Roba che va a centesimi il chilo, anche in Tennessee. Simpatico, ma sono passati sette minuti e non si è ancora sentito un testo originale di Bob Dylan. Il disco in tutto ne dura trenta, la lunghezza standard di un disco country).

Magari è Cash che si portava con sé un qualche compressore, un pedale per il riverbero, qualche effetto che lo aiutava a dare spessore a quel suo timbro che ormai era un marchio di fabbrica. Magari Dylan ha voluto provare a usarlo pure lui, ed ecco come potrebbe essere nata la voce di Nashville Skyline. Duettare con Dylan, l'abbiamo già visto, è faticoso e frustrante. Ha una voce che anche quando centra la nota che ti aspetteresti, è sempre in attrito con le altre che vorrebbero armonizzarsi. La Baez faceva l'impossibile per raggiungerlo, ma con Cash è diverso. È Dylan che si deve adattare. È una questione di rispetto, ma soprattutto di logica commerciale. È Dylan che ha bisogno del pubblico di Cash, non viceversa.

Oggi forse è difficile capire, il primo in Italia brilla come una stella di prima grandezza (anche se si vede meglio in altri emisferi), il secondo era perlopiù sconosciuto finché negli anni '90 non fu riportato alla ribalta grazie a una collaborazione con gli U2, e con una serie di dischi di cover contemporanee diventò una specie di nume tutelare della scena alternativa, esaltato per esempio da Wu Ming. Ma negli USA Cash è sempre stato più popolare di Dylan, o meglio: più nazionalpopolare. Di lì a pochi mesi avrebbe diretto uno show in prima serata sull'ABC. Negli anni Settanta avrebbe persino fatto la guest star in una puntata del tenente Colombo, una specie di consacrazione perché le guest star in Colombo recitano sempre la parte degli assassini, il che gli permise di giocare con la sua immagine pubblica, interpretando un divo del country cristiano rinato, marpione e uxoricida. Ve lo immaginate Dylan nella stessa situazione, Dylan messo sotto torchio da Peter Falk? Ma Cash è anche stato più socialmente impegnato di Dylan: tanto lontano dai circuiti rodati della politica quanto concentrato sui diritti dei meno rappresentati: i nativi americani e i galeotti. Nel 1968, mentre BD rilasciava interviste in cui negava di avere opinioni sul Vietnam, Cash aveva inciso il suo live più famoso, alla prigione di Folsom. Persino alla sua camicia nera, che aveva scelto come divisa per comodità e perché si sposava col vocione, col tempo assumerà un significato sociale: era il lutto per gli oppressi e i veterani. Nessuno ha mai potuto accusare Cash di aver tradito il suo pubblico o i suoi ideali. Dylan, per contro, stava costruendo intorno a questo tradimento una narrativa. In un certo senso la vera storia del rock comincia con lui, se il rock è dire "fottiti" a chi ha pagato per venirti ad ascoltare. E per un po' abbiamo tutti pensato che le cose stessero così.

È una delle cose più difficili da far passare, quando si racconta di Dylan e del rock in generale. La menata dell'integrità artistica. È un concetto che la mia generazione ha assorbito durante la pubertà, e che oggi proprio non funziona più. Oggi tutti (non solo i bimbominchia) trovano cosa buona e giusta che un artista faccia i soldi: è la dimostrazione tangibile e misurabile del suo talento. È la narrativa dei vincitori dei talent show, e ancora prima dei rapper. Che sotto i collanoni tamarri sembrano custodire un'etica calvinista: il denaro è la misura del successo, il successo è la prova che Dio li ha scelti. L'invidia dei critici è lo stridore dei denti di coloro che Dio ha creato perché fossero lo sfondo opaco alla gloria dei pochi. Una volta non la pensavamo così. Una volta c'erano molti più soldi in ballo, bisogna anche dire questo (oggi se un cantante azzecca un album al massimo si sistema per qualche anno, sei felice per lui, non è che arriva immediatamente il jet privato). È complicato spiegare che passavamo il tempo ad accusare i nostri artisti preferiti di vendersi, o di essersi già venduti. Che era poi a ben vedere il motivo per cui potevamo sentirli per radio, vederli alla tv, trovarli sugli scaffali dei negozi. E però alla fine di ogni artista cercavamo sempre i dischi precedenti, quelli meno commerciali.

Questa schizofrenia non riguardava soltanto una nicchia di utenti, era a suo modo un fenomeno di massa. In Europa ebbe il suo apice col punk - malgrado il punk avesse iniziato prestissimo a svendersi. Negli USA il mito dell'Integrità era cominciato molto prima, forse proprio con Bob Dylan. Che si era imposto in un ecosistema molto particolare - la scena folk di Manhattan, una contraddizione in termini che più di ogni altro aveva fatto emergere. Dylan fu la prima rockstar a sentirsi chiamare venduto: prima di lui c'era Elvis, ma nessuno trovava strano che Elvis si vendesse. Dylan fu il primo a trovarsi davanti il problema, e fu il primo che dovette elaborare una strategia per risolverlo: non fu semplice, e forse determinò un incidente stradale e/o un esaurimento nervoso. In ogni caso nel 1969 tutto questo era alle spalle, e Dylan sembrava avere trovato una sua risposta: certo che mi vendo. Che altro dovrei fare? Sono un musicista, questo è il mio mestiere. Mai preteso di essere altro. Johnny Cash era un buon esempio, autorevole e a portata di mano: aveva inciso tantissimi dischi, alcuni buoni, alcuni così così. Era un buon autore, ma soprattutto un interprete. E soprattutto non aveva mai smesso di sostenere Dylan. Lo aveva conosciuto alla Columbia quand'era la giovane promessa del folk; aveva presentato le sue canzoni al pubblico tradizionalista del country. Gli era rimasto amico anche nella fase rock più alienata. Nel 1968 Dylan perde Woody Guthrie, una figura in qualche modo paterna (nel 1969 perderà il padre vero). Cash rimaneva nei dintorni, un fratello maggiore che ne aveva viste tante, sul quale poter contare nel momento del bisogno. Anche lui viveva dalle parti di Woodstock, anche lui conosceva le paranoie della celebrità, e la fatica della vita da musicista on the road gli aveva lasciato un problema di dipendenza dalle anfetamine.

"Is it rollin', Bob?"

(E il terzo brano cos'è? Un blues, Voglio stare con te, ah vabbe', ci stiamo sprecando, eh, Bob? Al secondo ascolto un po' lo odi, Nashville Skyline, ma devi ammettere che certi momenti sono irresistibili. Gli attacchi di I Threw It All, di Tell Me That It Isn't True - e Lay Lady Lay, ovviamente. E One More Night ti si è attaccata al cervello, può restarci per settimane).

Dylan si offrì anche di illustrare
la copertina, e mica potevano
dirgli di no
(stava facendo progressi, dai).
Nel frattempo la scena folk andava esaurendosi per conto suo - o se preferite evolvendosi. Diversi duri e puri (Phil Ochs, Joan Baez) stavano cominciando a usare amplificatori e batterie, senza destare un decimo dello scandalo che Dylan aveva suscitato. Era la normale evoluzione delle cose, da musica da ballo il rock stava diventando il linguaggio comune di una generazione. La musica di protesta doveva adeguarsi o perire, e si adeguò. Agli hipster di città erano subentrati gli hippie suburbani, meno schizzinosi sia da un punto di vista musicale che politico: la priorità non erano più i diritti civili delle minoranze, ma parole d'ordine molto più vaghe, la Pace e l'Amore - che in piena escalation vietnamita non erano poi obiettivi così banali. "Sing Out!", la rivista di folk impegnato che aveva lanciato il Dylan cantautore e aveva stroncato il Dylan rockstar, a metà 1968 navigava in pessime acque. Fu Dylan stesso a proporre al folksinger Happy Traum di farsi intervistare. Un gesto generoso: Dylan non aveva nessun disco da vendere e in ogni caso il successo imprevisto di John Wesley Harding aveva dimostrato che li vendeva benissimo anche senza interviste. "Sing Out!" aveva rivalutato Dylan dopo JWH: lo aveva interpretato come un ritorno al folk, e un po' lo era. Si trattava però quasi di un effetto ottico: la convergenza tra Dylan e il folk era occasionale, Dylan stava facendo il giro competo, per arrivare all'estremo opposto: il country. Nashville Skyline è il crollo dell'Impero Romano d'Occidente, il tramonto della civiltà urbana, il ritorno alla campagna e alle tradizioni arcaiche.


Qui forse bisogna aprire una parentesi: che differenza c'è tra folk e country? (Continua sul Post).

lunedì 10 aprile 2017

Il fantasma di Scarlett (e il suo guscio)

Ghost in the Shell (Rupert Sanders, 2017).

Mi vuoi ancora bene?
Nel futuro saremo tutti replicanti e...
"Ancora?"
Aspetta, aspetta, nel futuro saremo tutti replicanti e smontabili e...
"Già visto".
Aspetta, aspetta, saremo tutti connettibili con gli spinotti dietro la nuca!
"Ancora gli spinotti? cos'è, il primo numero di Nathan Never (1991)? Persino la prof delle medie ha un tablet senza prese usb, vuoi dire che neanche nel futuro riusciremo ad avere un bluetooth decente?"
Nel futuro saremo tutti replicanti di Scarlett Johansson.
"Comprato".

Cosa ti piace di Scarlett Johansson? Quanti pezzi di Scarlett Johansson possiamo togliere a Scarlett Johansson prima che non ti piaccia più? Un braccio, ok, quello si può togliere anche a Charlize Theron, ma proviamo a togliere tutto tranne il broncetto. Sei ancora preso da Scarlett Johansson? Togliamo anche quello. Se ci pensate non è nemmeno il primo film in cui vi si pone il problema. Usciresti con un alieno assassino se però per attirarti si travestisse da Scarlett Johansson? Usciresti con un sistema operativo se almeno avesse la voce di Scarlett Johansson? (E se poi lo facciamo doppiare da Micaela Ramazzotti, ti innamoreresti lo stesso?) Nessun'altra diva ha giocato così tanto a decostruirsi, a farsi a pezzi, a ridursi a fantasma. Se date un'occhiata alla sua filmografia recente, sembra che non le interessi fare altro. Doppia cartoni animati, presta il viso a personaggi di fumetto che vengono animati da controfigure o computer-grafica, e si prende in giro da sola in una sequenza dei fratelli Coen. Che cosa sta cercando di fare Scarlett Johansson?

Il cyberpunk aveva questa fobia del vuoto, grattacieli, grattacieli ovunque,
come i salami di Jacovitti.

E tu? Cosa sei disposto a guardare per Scarlett Johansson? Un altro film degli Avengers? Un film di Luc Besson? Il remake di un anime degli anni '90, Blade Runner in salsa di soia? Tutto quel cyberpunk così terribilmente datato, quello coi cavi e gli spinotti e i pistoloni? Non potrebbe fare commedie brillanti, Scarlett Johannson? Sarebbe perfetta, no? Possibile che l'unica commedia rilevante sia stato un Woody Allen di più di dieci anni fa? È così carina quando sorride, perché deve fare la cosplayer imbronciata? In fondo anche alla Marvel la usano per i siparietti, e alla Marvel sanno quello che fanno, più che altrove.

(Magari non è colpa sua - avete visto commedie americane di recente? Forse il genere è stato preso in ostaggio da trenta-quarantenni misogini in addio al celibato da una vita. Mentre Scarlett si è data ai fumetti. È tutto sottosopra).

Il nemico (spoiler), è una versione Beta del protagonista, il che non mi pare che succedesse nell'originale, ma ormai è un tropo dell'immaginario hollywoodiano: persino il Teschio Rosso cinematografico è un Beta di Capitan America.
L'equipaggio dell'ultimo Star Trek incontra un equipaggio precedente che è diventato cattivo, ecc.
(Forse il messaggio subliminale è: ti sei ricordato di scaricare gli aggiornamenti?
Un device che non si aggiorna diventa malvagio!)
Magari semplicemente la Johansson cerca quello che la Marvel non le ha voluto dare... (continua su +eventi!)

Magari semplicemente la Johansson cerca quello che la Marvel non le ha voluto dare: il ruolo da protagonista in una saga che possa fare quei tre, quattro episodi. In fondo ce l'ha fatta la Jolie, ce l'ha fatta Milla Jovovich (ok, budget diversi), perché non lei? Per un sogno del genere, è stata disposta ad andare dove nessuna attrice americana sulla cresta dell'onda era stata prima: su un set di Luc Besson. In confronto Ghost in the Shell è quasi un bel film. Epperò Lucy è costato meno della metà e per ora ha incassato tre volte tantoGhost alla fine non sarà un flop, non può esserlo, ma qualcosa non ha funzionato. E non è la resa grafica (dico "grafica" perché ormai ci siamo, il confine tra animazione 3d e live action è saltato: la Johansson è definitivamente un ghost, un'idea che sopravvive nel nostro cuore anche quando, nella scena centrale, perde letteralmente pezzi di faccia). La sfida di dare una consistenza più realistica all'anime che più di ogni altro ha definito l'immaginario cyberpunk è stata vinta, ed è una vittoria assolutamente inattesa.
Il problema è che pur sempre un cyberpunk pre-Matrix, un immaginario anni '90 che si costruiva aggiungendo dettagli, su dettagli, grattacieli su grattacieli, macchinoni, pistoloni, grovigli di cavi, tutte cose che oggi ci risultano necessariamente datate, analogiche. Oggi che abbiamo fotocamere senza obiettivi sporgenti, l'idea che un tizio se li faccia montare al posto degli occhi ci sembra più morbosa di quanto non fosse. È bizzarro, perché siamo ormai ad anni Dieci, e la legge dei vent'anni prevederebbe una seria nostalgia per quell'immaginario. E invece tutti sono rapiti per cose anni Ottanta come Stranger Things, o addirittura per storie più vecchie, come quelle su cui ancora si basano i mondi immaginari della Marvel e della DC. Il cyberpunk proprio non ce la fa a tornare. Forse perché non era un mondo immaginario: di tutti i mondi è davvero quello che stiamo per vivere, e quindi ha meno senso averne nostalgia. Scarlett Johansson non interpreta il Maggiore, in un certo senso lo è. Chissà se esiste davvero ancora in forma fisica. Di sicuro esiste un'idea di lei, che si smonta e si rielabora di film in film, di guscio in guscio. La prospettiva è meno spaventosa di quel che sembra. Come il cyberpunk, a furia di guardarlo ci siamo assuefatti (il che lo rende un po' noioso al cinema) e onestamente non ho obiezioni a immaginare la Johansson che presta le fattezze ad eroine da fumetto per qualche altro secolo. Se però la facessero sorridere un po' di più, ecco, preferirei. Ghost in the Shell è al Cityplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20, 22:40), al Vittoria di Bra (22:00), al Multilanghe di Dogliani (21:30), all'Italia di Saluzzo (22:15) e al Cinecittà di Savigliano (22:30).

sabato 8 aprile 2017

Il far west metafisico

John Wesley Harding (1967)

(Il disco precedente: The Basement Tapes.
Il successivo: Nashville Skyline).



La casa era malvagia. Si capiva da lontano.
Non avendo ancora l'età per il motorino, battevamo la pianura in bicicletta. La statale era troppo pericolosa, così insistevamo su queste strade di campagna, tenendo la barra a sud perché la città era da quella parte - ma era veramente la città che cercavamo? Un pomeriggio tra gli altri trovammo uno stradone che conduceva a una villa, forse una residenza di signori. Per un buon tratto di strada non ci sembrò diversa da tante le altre case sperse nella pianura. Poi ci accorgemmo che tra le finestre vere ce n'erano di dipinte, e da ogni finestra un volto di donna ci guardava. Non ricordo cosa ci dicemmo. Forse anche niente: ma tornammo indietro. Avessimo avuto qualche anno in più, la curiosità avrebbe vinto. Ma non avevamo ancora l'età del motorino, e una casa di finestre dipinte, di volti dipinti, ci sembrava soltanto un luogo empio.

È uscito il nuovo documentario di Al Gore, e io non ho voglia di vederlo. Credo che l'unica cosa che capirei è: siamo fottuti. Dieci anni fa avremmo dovuto intervenire in modo preciso su alcuni problemi molto chiari, ma mancava la volontà politica e in seguito è mancata sempre più. È andata così. Ora chi è ricco si sta organizzando il suo paradiso artificiale; chi è povero si attrezza per la catastrofe; chi sta in mezzo si svaga litigando sui vaccini o sull'olio di palma o sulle primarie del Pd o sulla Siria. Io scrivo di Dylan, tanto ormai.

(Le piante dei miei piedi, vi giuro, stanno bruciando).

Nell'autunno del 1967 Dylan chiama Bob Johnston, il suo produttore, e lo avverte che ha finalmente qualche canzone da registrare a Nashville. Stavolta non si porta né Robertson né Kooper, col quale forse ha rotto i rapporti. Johnston gli fornisce una sezione ritmica: al basso c'è Charlie McCoy, che aveva regalato una chitarra flamenco a Desolation Row. Dylan ha idee insolitamente chiare su come registrare il nuovo materiale: in poche ore tre canzoni sono pronte e Dylan se ne torna a Woodstock. È il 17 ottobre. Il 6 novembre è di nuovo a Nashville per una seconda sessione, con gli stessi musicisti. Il disco è quasi pronto. È il più strano che abbia mai inciso.

Se all'inizio aveva avuto in mente un arrangiamento un po' più elaborato, strada facendo cambia idea. A un certo punto deve avere avuto un ripensamento, visto che dopo le prime due session fece ascoltare i master a Robbie Robertson, il chitarrista della Band. Voleva proporgli di fare qualche sovraincisione. Robertson rifiutò. Forse la stima di Dylan se l'è conquistata così, mettendo la sincerità sopra il suo interesse: era l'occasione per rimettere mano a un disco di Dylan, magari per dimostrare che gli elementi della Band potevano funzionare anche come musicisti da studio. Ma Robertson disse di no: i pezzi gli sembravano già perfetti così.

Che Dylan potesse nutrire dei dubbi su quello che stava facendo è comprensibile. I pezzi nuovi erano completamente diversi da quelli di Blonde On Blonde. Potevano in un certo senso somigliare a un ritorno all'ordine, al folk del periodo acustico: e molti critici e militanti si precipitarono a leggerli in tal senso. Ma a ben vedere erano qualcosa di completamente diverso. A me piace pensare che Robertson abbia sentito qualcosa di pericoloso in quei solchi, qualcosa a cui era meglio non avvicinarsi. "Una casa con ventiquattro finestre, e un volto di donna in ognuna".

Carrà 1914.
Di John Wesley Harding nessuno osa parlar male. Molti preferiscono non ascoltarlo neppure - i numeri di Spotify lasciano intravedere un abisso tra gli ascolti di Blonde On Blonde e quelli di JWH. Siamo entrati nella tarda classicità, una zona grigia in cui la critica lo difende ancora ma lo ascolta meno volentieri. I barbari a ben vedere sono già arrivati, alcuni militano nelle legioni dell'Impero. Se anche non sapessimo nulla dell'incidente in motocicletta (in effetti non ne sappiamo un granché), ugualmente non potremmo che concludere che tra i due dischi dev'essere successo qualcosa di grave, una catastrofe, una malattia. Qualcosa è finito per sempre - banalmente, è scomparso l'organo di Kooper, che da Like a Rolling Stone a Blonde On Blonde era diventato la cifra del suono di Dylan. Qualcos'altro sembra riaffiorare dal passato: tornano le ballate, le buone vecchie tradizioni (i fan che fischiavano ai concerti potevano dirsi soddisfatti), eppure sono illuminate da una luce diversa, onirica, che ci fa dubitare di quello che sentiamo. Qualcuno nottetempo ha creato una città falsa affinché ci svegliassimo convinti di abitarci da sempre, ma ha sbagliato qualche dettaglio, magari i nomi delle statue. John Wesley Harding non è un eroe, Sant'Agostino non è un martire, Tom Paine non è Tom Paine, queste ballate non sono vere ballate, questo passato è un'impostura.

JWH mi fa sempre venire in mente un quadro di Carrà, Le figlie di Loth. È un'opera neoprimitiva, neomedievale, proto-metafisica, che indugia nell'ambiguità e nel mistero - con quel titolo biblico che forse serve solo a dare un tono. Più che un quadro che racconta della Grande Guerra, è l'opera di un reduce che ne porta i segni. Cinque anni prima Carrà era partito per la trincea interventista e baldanzoso: i quadri che dipingeva fino al 1914 erano tripudi futuristi di movimenti e di colore. Le figlie di Loth per confronto sembra il vaneggiamento estatico di un mutilato in un sanatorio. C'è sempre la possibilità che il pittore fosse solo un furbacchione che sapeva annusare il vento: dopo Caporetto nessuno voleva più sentir parlare di futurismo, mentre questa metafisica e questi valori plastici promettevano bene.

Carrà 1919.
Allo stesso modo, può anche darsi che la profondità di John Wesley Harding sia completamente accidentale: che si tratti soltanto un disco inciso in fretta e furia per evitare di pagare una penale. Nella peggiore delle ipotesi, Dylan non aveva materiale e arrivò a Nashville con una manciata di testi brevi e sconclusionati, costruiti intorno a uno schema metrico convenzionale. Ci applicò i primi giri di chitarra che riuscì a trovare, registrò e mandò alla Columbia con preghiera di promuovere il disco il meno possibile (uscì due giorni dopo Natale, apparentemente un suicidio commerciale). Aveva così poche canzoni che riciclò anche una ballata western che non era riuscito a finire. Per nascondere la sua natura di riempitivo mise il brano in cima alla scaletta, e siccome non aveva nemmeno trovato un nome per il disco, la Columbia usò proprio il titolo della ballata abortita, John Wesley Harding.

Stavo scrivendo una ballata su... tipo magari uno di quei vecchi cowboy, sai... una di quelle ballate davvero lunghe. Ma a metà della seconda strofa mi sono stancato. Avevo una musica, e non volevo sprecarla, era una melodia carina, così ho soltanto scritto una terza strofa rapida, e l'ho registrata... sapevo che la gente avrebbe ascoltato la canzone e avrebbe detto che non capiva quel che stava succedendo, ma se avessero fatto uscire quella canzone più tardi, se non avessimo chiamato l'album John Wesley Harding e non avessimo dato tanta importanza alla canzone, così che la gente cominciasse a farsi domande, la canzone sarebbe saltata fuori e la gente avrebbe detto che era un rifiuto. (Intervista a "Rolling Stone", 1969)

Nemmeno Dylan poteva immaginarsi che un disco del genere diventasse un successo tanto clamoroso. Divenne disco d'oro molto prima di Blonde On Blonde. I primi a farselo piacere furono i critici: dopo 18 mesi senza un disco ufficiale erano in crisi pesante, si erano ridotti ad accaparrarsi i fumosi bootleg della cantina. In confronto JWH era un prodotto di nitore smagliante: e non c'è dubbio che i testi, per quanto ambigui, siano molto evocativi, e che gli arrangiamenti, così puliti ed essenziali, lo rendano uno dei dischi di Dylan che teme meno il tempo. Potrebbe essere stato inciso in un momento qualsiasi tra il 1960 e oggi. È un album senza età e senza apparente senso, in cui tutti hanno trovato tutto. Ci sono in giro teorie di ogni genere, alcune seducenti (le iniziali di John Wesley Harding alluderebbero al tetragramma biblico), altre un po' tirate per i capelli: vedi l'impegno con cui i critici cercavano di trovare riferimenti alla guerra del Vietnam in un disco che rifiuta qualsiasi contatto con la contemporaneità ed è ambientato in un Far West metafisico. Per Alessandro Carrera John Wesley potrebbe alludere a Lee Harvey Oswald, l'assassino di Kennedy.

John Wesley Harding era un amico dei poveri. Ma quando mai. John Wesley Hardin (senza g) era un maledetto ragazzino che sparava per capriccio e una volta uccise un tizio solo perché russava, nella sua stanza d'albergo. Voleva solo svegliarlo, disse. E così sparò. In aria? No, sparò alla parete. Un colpo? No, un tamburo intero. Lo svegliò? Non per molto. Anni dopo, quando saltava fuori la storia, lui si difendeva così: dicono che ho ucciso sei uomini perché russavano, beh, non è vero. Ne ho ucciso uno soltanto. Nella sua autobiografia si attribuiva altri 40 omicidi. Stime più oggettive stanno sotto la trentina. "Ma che si sappia non ha mai colpito un onest'uomo", scrive Dylan. Stronzate. Sta confondendo uno dei pistoleri più insensatamente violenti di tutta la storia del West con un Robin Hood. Perché lo fa? Siamo in un qualsiasi momento del 1967, Dylan è a Woodstock. Il tempo che non lo passa in famiglia lo trascorre a lezioni di pittura da un vicino di casa, o a improvvisare con la Band. I testi che butta giù nel periodo non sono molto definiti, sembrano tutti brogli funzionali a mandare avanti la musica, in attesa di trovare parole più ispirate. Magari "John Wesley Harding" all'inizio era solo un nome che gli ronzava in testa. Magari dopo la prima stesura avrebbe sostituito il nome con uno meno ingombrante. Non è la prima volta che si improvvisa cantastorie del West e si mette a raccontare la saga di un fuorilegge dal cuore d'oro: per la Witmark aveva già inciso la ballata di "Rambling, Gambling Willie", giocatore d'azzardo amico dei poveri e degli oppressi. John Wesley Harding, la canzone, avrebbe potuto fare una fine molto simile: registrata in cantina, archiviata, perduta, ritrovata quarant'anni dopo. Quello che la trasforma nella title track di un nuovo disco di Dylan è un evento misterioso e paradossale. Dylan si blocca sulla seconda strofa. Come un'epifania al contrario: perde la parola. Forse si domanda: ma cosa sto scrivendo? Perché racconto delle storie, delle leggende, delle bugie? È questo, davvero, il mio mestiere?

Quel che avviene dopo, nessuno ce l'ha mai raccontato.

Compaiono all'improvviso nove brani. Non può che averli scritti nel 1967, ma non sappiamo quando: sappiamo invece che non li volle mai provare con la Band, anche se ci suonava quasi tutti i giorni. E che li compose senza avere una musica, una cosa che in seguito sosterrà di non aver mai fatto né prima né per molti anni a seguire. Sette seguono uno schema ritmico convenzionale, la Common measure delle vecchie ballate: a un verso di quattro giambi (There MUST be SOMEthing OUT of HERE) ne segue uno di tre (Said the JOker TO the THIEF). È lo stesso distico del Poema del vecchio marinaio di Coleridge, di Amazing Grace, di As I Walked Out One Evening di Wystan H. Auden. È un metro che Dylan non si va a cercare: se lo porta dietro dalla scuola, dalle letture che ha fatto, da qualche vecchio disco che ha preso in prestito. I sette brani hanno un numero fisso di versi: tre strofe di quattro distici, trentasei versi (il 36 è una cifra di una certa importanza nella Bibbia). Una simile regolarità è insolita non solo per Dylan, ma in generale per qualsiasi cantautore o autore di musica leggera. Ai giornalisti spiegherà, tradendosi un poco, che stava cercando di diventare sintetico, di togliere i versi riempitivi, di scrivere l'essenziale: un'implicita autocritica per i deliri torrenziali di Blonde On Blonde? Ma ha l'aria di una giustificazione a posteriori.

Rimane la suggestione letteraria: i sette testi, accostati, sembrano formare una plaquette, una breve corona di poesie come avrebbe potuto pubblicarla un poeta modernista della prima metà del Novecento. Si tratta per lo più di visioni oniriche: partono da un dettaglio che sembra realistico e rapidamente allargano il quadro finché non compare qualcosa di dissonante, di paradossale, che ci porta al risveglio. Potrebbe averli scritti tutti in una notte: potrebbero essere sette sogni, intervallati da sette brevi risvegli. Il primo e l'ultimo sembrano funzionare come chiave.

As I Went Out One Morning comincia come una passeggiata "dalle parti di Tom Paine": siccome Paine è un rivoluzionario e Padre Fondatore, siamo portati a immaginarlo come una statua in un parco. Proprio da quelle parti Dylan vede una fanciulla in catene: appena le offre una mano, appena lei gli afferra il braccio, si rende conto che gli farà del male. Tenta di scrollarsela di dosso, ma lei non si stacca, lo implora, vuole scappare con lui a Sud. Finché non arriva Tom Paine in persona a imporle di sottomettersi, e a chiedere scusa: Tom Paine chiede scusa a Bob Dylan. È il momento di svegliarsi, e rammentare quella vecchia figuraccia che Dylan aveva rimediato tre anni prima, quando aveva maldestramente parlato dell'assassinio di Kennedy mentre saliva su un palco a ritirare un premio... il Tom Paine Award.

"Ho sognato che vedevo Sant'Agostino vivo come te o come me". I sogni di JWH non sono immersi in nessuna nebbia onirica, di quelle che convenzionalmente vengono sparse sui set cinematografici. Sant'Agostino, per qualche secondo, è vivo come noi: proprio come succede alle immagini dei sogni veri e non ricostruiti in laboratorio. JWH è un disco inquietante che non fa il minimo uso degli strumenti convenzionalmente adoperati per inquietare l'ascoltatore, o anche solo per segnalare che si trova davanti al tipico oggetto misterioso: niente riverberi e bisbigli, niente settime diminuite, solo basso batteria chitarra e armonica. Ogni canzone che comincia potrebbe parlare di amore o di disoccupazione o di semine e raccolti, e invece ecco appare un Santo con le sue profezie di sventura. Cerca le anime già vendute. Non ha pietà per re o regine. È davanti al martirio, e all'ultimo istante Dylan si rende conto di stare tra la folla che lo condanna. "Oh, mi svegliai nell'ira, così solo e terrorizzato. Misi le dita sul vetro, chinai il capo e piansi".

Di All Along the Watchtower avremo occasione di parlare altre volte, se non altro perché si tratta della canzone che Dylan ha eseguito più volte dal vivo. C'entra senza dubbio Jimi Hendrix, ma non sottovaluterei il fatto che sia facilissima da suonare (gli U2, impertinenti, la impararono in una sera e la registrarono subito). In questo caso il problema di trovare una musica per un testo già pronto venne risolta con una soluzione che nel 1967 doveva sembrare incredibilmente minimale: un riff di tre accordi, la minore - sol - fa - sol - la minore, martellati per tutta la canzone. L'hard rock comincia anche qui. Il testo è un altro quadretto metafisico: dei torrioni, una muraglia, due misteriosi personaggi (il Joker e il Ladro) che discutono, indovinate, della fine del mondo. Che è inevitabile e forse non deve preoccuparci, dice il Ladro, perché "ci siamo già passati, e non è il nostro destino". La terza strofa (coi cavalieri che si avvicinano alle mura) potrebbe essere la prima, il quadretto non ha un inizio e una fine, tutto si raggela in un solo istante. Magari è una coincidenza, ma Dylan sta anche imparando a dipingere.

The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest non fa parte delle sette ballate uguali: ha la stessa struttura, ma è molto più lunga, un ritorno di Dylan al racconto in versi. È anche una delle cose più misteriose che abbia scritto (continua sul Post)

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